INTERVISTA A S. VELOTTI – Seconda Parte

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foto Louise Bourgeois, JanusHanging Janus with Jacket, Janus in Leather Jacket, Janus Fleuri, bronzo, 1968.

La seconda parte dell’intervista a Stefano Velotti, professore associato di Estetica presso l’università “La Sapienza” di Roma e autore del libro La filosofia e le arti, Roma-Bari 2012. Le sue ricerche si concentrano sul problema del giudizio, del gusto, del “non so che”, dell’ignoranza, dell’immaginazione e dell’arte, in riferimento ad autori sia settecenteschi che contemporanei. Tra le sue precedenti pubblicazioni: Estetica analitica. Un breviario critico, Palermo, 2008, e Storia filosofica dell’ignoranza, Roma-Bari, 2003.

3. Nel suo libro si nota, soprattutto a partire dal terzo capitolo, un ritorno alla filosofia di Kant e allo studio esemplare che ne fece il suo maestro Emilio Garroni. Nell’epoca contemporanea, la filosofia critica, oramai “vecchia” di 200 anni, è ancora uno strumento valido? Quale può essere il suo ruolo nell’era della tecnologia e dell’immagine digitale?

S. Velotti: Garroni è stato un vero maestro. Anche l’esigenza da cui parte questo mio libro era stata formulata da Garroni, a suo modo, nelle pagine finali del suo Senso e paradosso. Penso che il suo pensiero e i suoi libri meriterebbero una maggiore attenzione (benché la loro influenza si stia allargando e approfondendo, in Italia e all’estero). Tuttavia Garroni non pensava in nessun modo a ‘gestire’ i suoi scritti o la sua ‘figura’ di filosofo e di scrittore. A un certo punto bloccò persino la pubblicazione in inglese di un suo libro (Estetica. Uno sguardo-attraverso), promossa da Sebeok, perché la traduzione non gli piaceva… Ed è stata una sofferenza, per un suo allievo come me, constatare spesso come altri libri che restano molto al di sotto della ricchezza e della qualità di quelli di Garroni, siano considerati e dibattuti in tutto il mondo, perché sono usciti in inglese, e perché l’autore si è fatto un po’ manager di se stesso. Quanto all’attualità del pensiero di Kant, potrei cavarmela citando l’esplosione di studi kantiani – in crescita anche qualitativamente – anche nei paesi anglosassoni. In particolare, negli ultimi anni c’è stata quasi un’inflazione di studi dedicati alla terza Critica. E non si tratta solo di studi specialistici di ‘kantisti’, ma anche di riprese del pensiero kantiano volte a saggiarne la fecondità per leggere il presente. Ovviamente non bisogna usare Kant come un passepartout, un corpus di testi sacri in cui si devono trovare per forza tutte le risposte. Prima ancora che sterile, sarebbe innanzitutto un atteggiamento antikantiano. Tuttavia, sarebbe anche insensato abbandonare Kant perché ‘è vecchio di duecento anni’. Va abbandonato quando si pensa che non possa dare altro, quando si ha la sensazione che la sua forza euristica si esaurisca di fronte a certi problemi. Di fronte al problema dell’immagine, per esempio, credo che il lavoro che Kant ci ha trasmesso sullo schematismo (e in particolare sul ‘libero schematismo’ della terza Critica) sia ancora molto fecondo, per chi sappia elaborarlo produttivamente (Garroni lo ha mostrato nel suo ultimo libro, ‘Immagine, linguaggio, figura’). Nel mio libro, ho fatto del mio meglio – nel secondo capitolo – per ricavare dalla tradizione analitica un pensiero dell’immagine (in particolare di quella pittorica). E ho trovato sicuramente contributi importanti. Tuttavia mi sembrava che mancasse qualcosa di essenziale: apprezzo lo sforzo di precisione e di analisi minuziose di certe questioni, ma spesso si finisce nella scolastica, cosa che mi fa perdere le ragioni stesse del mio lavoro. Solo quando ho ritrovato (grazie, direi, alla linea Wollheim-Walton) la centralità del lavoro dell’immaginazione, solo allora mi è tornata la voglia di ragionare e di scrivere. Le opere su cui ho tentato di mettere alla prova quel ‘contatto’ tra arte e filosofia – Janus Fleuri di Louise Bourgeois e Quelli che trascurano di rileggere si condannano a leggere sempre la stessa storia di Marzia Migliora – sarebbero rimaste piuttosto mute se mi fossi limitato a utilizzare i contributi analitici passati in ricognizione nel secondo capitolo e, invece, mi sembra che abbiano ripreso vita sullo sfondo del ‘lavoro dell’immaginazione’ su cui mi concentro a partire dal terzo capitolo. Ma proprio il ‘lavoro dell’immaginazione’ – ‘lavoro’ imprescindibile se si vogliono comprendere le immagini, digitali e non, e le nuove tecnologie – rimanda continuamente alle analisi kantiane. Pensi per esempio all’idea di Kant secondo cui lo schematismo oggettivo – quello della prima Critica – è una determinazione del tempo. Così che, quando nella terza Critica lo schematismo (il ‘libero schematismo’) non è più guidato da un concetto, anche la temporalità dello schema e dell’immagine viene sospesa. Su questa base – non tematizzata da Kant – è possibile studiare come e perché le immagini ammettano al loro interno turbolenze temporali, ‘ritorni anacronistici’, il determinarsi di una suspense irrisolta, l’intreccio di tempi diversi e la loro sospensione, e così via.

4. Qual’è secondo Lei il filosofo analitico, o il critico d’arte d’oltreoceano, che ha veramente compiuto un’indagine valida avvicinandosi a un’estetica di tipo continentale?

S. V.: La domanda sembra presupporre che la misura della validità di un’indagine sia data da un’estetica di tipo ‘continentale’. Non penso che sia necessariamente così. Il lavoro di Kendall Walton, per esempio, è forse quello con cui trovo maggiori affinità, e i suoi legami consapevoli o tematizzati con la tradizione ‘continentale’ sono molto scarsi. Diciamo che leggere Walton – in particolare il suo Mimesis as Make-Believe (ora tradotto in italiano da Marco Nani per l’editore Mimesis)- è anche un buon modo per scoprire o riscoprire nella tradizione ‘continentale’ (Kant, innanzitutto, ma non solo) potenzialità non ancora sviluppate. Spesso, proprio per il loro stile diretto e ‘ingenuo’ – i filosofi di tradizione analitica pongono con nettezza delle domande circostanziate che riattivano una comprensione feconda di autori ‘continentali’, che spingono a interrogarli sotto punti di vista inediti. È soprattutto questo che apprezzo di quella tradizione. Poi ogni tanto ci sono dei fuoriclasse (non saprei neppure dire se sono considerati ‘analitici’), come penso sia per esempio Stanley Cavell, che da qualche anno comincia a essere studiato seriamente anche in Italia (penso a Davide Sparti che ne ha curato alcuni scritti, ma anche a un giovane studioso come Francesco Frisari). Il critico che amo di più è recentemente scomparso: mi riferisco a Leo Steinberg. Anche in Steinberg però troviamo – nei confronti della filosofia ‘continentale’ – un fenomeno che era diffusissimo, almeno fino a qualche anno fa, e che valeva per altri versi anche per Dewey: una forte vicinanza sostanziale con posizioni kantiane, accompagnata a una conoscenza di Kant da manuale scolastico scadente, che provoca battute antikantiane molto superficiali (ma preferisco questi casi di incomprensione e rifiuto dichiarati, e consonanze sostanziali, a quei casi in cui ci si dichiara in certa misura kantiani restando lontanissimi da Kant e alimentando così pregiudizi e confusione: credo siano i casi – molto diversi tra loro – di un Popper o per certi aspetti di John MacDowell e senz’altro, nel campo della critica d’arte, di un critico così influente quale è stato Greenberg).

5. Oltre agli esempi sull’opera di Louise Bourgeois e su quella di Marzia Migliora, di quale opera e di quale artista Le sarebbe piaciuto parlare?

S. V.: Avrei voluto e dovuto parlare soprattutto di opere che usano media diversi, di altre forme d’arte, dalla letteratura alla musica, dall’architettura alla fotografia al cinema. Menzionare dei nomi, senza una giustificazione – un’interpretazione e un giudizio articolato su singole opere – non avrebbe molto senso. Per chi, come me, non ha competenze specialistiche sull’arte, bisogna mettere in conto innanzitutto l’attivarsi imprevedibile di una sorta di consonanza con l’opera: l’opera sembra ‘promettere’ qualcosa di importante (accende qualcosa, ‘cattura l’immaginazione’, come si dice) e allora può accadere che si trovi la voglia, la forza e il piacere di frequentarla ripetutamente, di studiarla, di comprenderla, di tentarne una lettura, di mettersi alla prova su qualcosa che ha la forza di imporre un proprio paradigma spiazzante, provocante.

6. Infine, una domanda strettamente interna al suo testo, la triade giudizio estetico-immaginazione-interpretazione lavora al meglio soltanto nel momento in cui è strettamente correlata oppure può lavorare bene anche se divisa?

S. V.: I tre termini che lei menziona sono strettamente correlati. Sul giudizio, in particolare, bisogna insistere che non ha senso se deprivato di un lavoro immaginativo-interpretativo. Altrimenti rischia di avere una dimensione molto sottile, ‘thin’, idiosincratica, di ‘mèra preferenza’ (‘mi piace/non mi piace’), estetistica o consumistica. Invece credo che vada compreso come un giudizio ‘thick’, con un suo spessore, una sua articolazione immaginativa, interpretativa, e anche discorsiva, ovviamente.

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Autore

Lorenzo Cascelli

Ho conseguito la Laurea Magistrale in Estetica nel 2012 con una tesi su "The Tree of Life" di T. Malick e "Melancholia" di L. von Trier presso il dipartimento di Filosofia dell'università "La Sapienza" di Roma. Caporedattore prima di Arte e Libri e poi di Cinema presso Pensieri di Cartapesta, da Aprile 2014 sono direttore editoriale di Nucleo Artzine.

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