Tommy

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È tornato per tre week-end al Teatro Campo d’Arte lo spettacolo Tommy. Un testo di Giuseppe Manfridi dell’85, l’à bientôt dell’attore Giuseppe Russo prima di volare negli Stati Uniti. Con la regia di Andrea Bellocchio, uno sgabuzzino racconta una storia che ritorna con la prepotenza di uno starnuto.

 Tommy

 Di Giuseppe Manfridi

 Con: Giuseppe Russo

 Regia: Andrea Bellocchio

 Piccolo Teatro Campo d’Arte, Roma

Sei secondi: il tempo di un’attesa. L’intervallo minimo che ogni essere umano può permettersi di perdere. Tommy –Giuseppe Russo– deve guadagnarlo: sei secondi sono il tempo che ha per parlare, per vivere e pensare, prima che il suo nulla lo avvolga con la violenza di uno starnuto. Tommy è un adulto-bambino che vive nel suo sgabuzzino-rifugio atomico che lo protegge dalla sua diversità, perché lui è un diverso: diverso di sei secondi.

Un piccolo teatro, la scenografia essenziale e rappresentativa, i giochi di luce e di regia seguono l’andamento circolare della narrazione e del processo autoanalitico di Tommy: la porta dello sgabuzzino, il giocattolo, le bocce, il tavolino sono le immagini a cui si aggrappa l’associazione mentale che porta alla rievocazione, il cerchio della memoria che si chiude tornando al presente. Tommy sta nello sgabuzzino perché è l’unico luogo dove lo starnuto si calma, lì dentro lui tiene le sue cose, non deve preoccuparsi degli altri, il cattivo odore del chiuso non lo disturba più di quello dell’aperto, il resto di casa, i genitori. Tommy non è sempre stato vittima del nulla, nello sgabuzzino lo starnuto si calmava, guadagnava sei secondi alla volta e li aveva tutti per misurare se stesso. Finché la madre non gli ha tolto la lampadina. Ma «io avevo la torcia e ci vedevo con quella!», ha detto Tommy alla psicologa fuori dalla porta.

Viene da chiedersi se ci sia davvero, la psicologa, dietro alla porta dello sgabuzzino, o è Tommy che ha cominciato a sentire il cattivo odore del suo rifugio e si è domandato perché: perché ho cominciato a stare qui, e che diceva mia madre, e dov’era mio padre… Luisa! Luisa gli piaceva. Anche al papà piaceva. La madre lo sapeva e gli ha tolto la lampadina. Ma lui ci vede con una torcia. La porta dello sgabuzzino: starnuto. Il giocattolo: starnuto. Le bocce con papà: starnuto. Il tavolino, la cena, la mamma, il papà, Luisa… Starnuto! Perché ora gli prende così forte anche nello sgabuzzino? È la psicologa con le sue domande? O è la sua torcia? La luce passa dal suo naso e all’inizio gli illumina solo quello, il diverso di sei secondi, poi il giocattolo, le bocce, la cena: «mamma, è inutile che spegni la luce, io ho sempre avuto la torcia e vedo ogni cosa!» Tommy non lo dice, ma il pubblico lo sa perché l’attore e il regista –Andrea Bellocchio – hanno saputo leggere, tra le virgole di Giuseppe Manfridi, gli scarabocchi invisibili di ogni drammaturgo al momento della scrittura: il suo immaginario, il gesto, le dita tra i capelli, il palmo sul fianco. Starnuto! Per questo Tommy preferisce il suo buio, il suo nulla: lui ha sempre visto tutto e non era così bello. Ora è ancora peggio, perché lo sgabuzzino non è più così buio e pieno di nulla, è pieno di ricordi, quasi quasi comincia davvero a puzzare, non bastano più lo spazio né i sei secondi, Tommy è ancora più diverso e il pubblico sta già pensando a quale sia il proprio sgabuzzino. Cosa da fare in sei secondi: tra il buio e l’applauso rumoroso che farà allo spettacolo.

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Redazione

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