INTERVISTA A ROMEO BUFALO – Prima parte

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foto Giorgio De Chirico, Piazza d’Italia, 1961

La prima parte dell’intervista a Romeo Bufalo, professore associato di Estetica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria e autore del libro “Il mondo che appare. Storie di fenomeni”, Mimesis, 2012.  Tra i suoi scritti: La forma del sentimento(1984), John Dewey oggi (1996, insieme a M. Alcaro), Arte, Natura, Storicità (1999, insieme a P. Colonnello), Piacere e bellezza (2000), Il comico tra estetica e filosofia (2001), L’esperienza precaria. Filosofie del sensibile (2006).

1.   Il concetto fondamentale che è sotteso a tutto il libro è quello di verità estetica: ce lo può illustrare?

R. BUFALO: 
L’idea di ‘verità’ ci porterebbe, come è evidente, molto lontano. Senza impelagarci nelle complesse questioni sorte intorno a questa nozione capitale della storia del pensiero, diciamo che, nella prospettiva del libro, “verità estetica” si contrappone a “verità logica”. Mentre quest’ultima si dispone su un piano epistemico (come rapporto tra enunciati linguistici e ‘stati di cose’, per adoperare un’espressione wittgensteiniana), la verità estetica si colloca invece su un piano ontologico, perché riguarda il modo in cui gli enti accadono e, accadendo, ci colpiscono ed acquistano senso. La verità estetica è insomma qualcosa di molto simile a ciò che intendeva Carlo Diano quando parlava di forma eventica (una specie di aureola che scaturisce dall’interno dell’evento, del fenomeno singolare-sensibile, lo delimita, lo definisce rendendolo significativo; ma in tal modo lo universalizza, ne fa un singolare-universale, lo rende, cioè, vero esteticamente).  Se si vuole, è la verità del senso, nella duplice accezione di questo termine. Una verità che aveva limpidamente intravisto Aristotele quando, nella Metafisica, sosteneva che i sensi non ingannano mai; e che anzi, relativamente alle esperienze in atto, ci dicono sempre la verità delle cose (la sensazione di ‘dolce’ che io provo mentre bevo un certo vino, dice Aristotele, è incontrovertibilmente vera, e si colloca su un piano noetico; mentre la verità del ragionamento, o del logos, si colloca su un piano dianoetico). Si potrebbe continuare, ma mi fermo qui.

2.   Nel primo capitolo lei scrive: “Il quadro entro il quale si delinea la bellezza nel mondo antico, rinvia più che ad un’estetica, ad un’ontologia, o, se si vuole, ad una metafisica come apparire luminoso degli enti”. Come si intrecciano, dunque, piano estetico e piano teoretico nel suo progetto di recupero del sensibile?

R.B.
: La sfera estetica, come ormai è comunemente accettato, è una sfera a forte componente teoretica. Anzi, secondo alcuni è proprio l’estetica che oggi svolge il ruolo che fu  della metafisica. Se infatti compito della metafisica è quello di riflettere sulle ‘cose prime’, allora, come aveva detto il fondatore dell’estetica moderna, Alexander Baumgarten, le cose che incontriamo per prime nelle nostre esperienze sono quelle sensibili, gli aisthetá; mentre le intelligibili, ossia i noetá, sono quelle che vengono dopo, vale a dire le ‘cose seconde’. Per dirla tutta, occorre rovesciare la tradizionale subordinazione del sensibile nei confronti dell’intelligibile, ed assegnare al primo l’autonomia gnoseologica ed ontologica che gli spetta. Questo significa fare del sensibile un centro indipendente di irradiazione teoretica ed il luogo in cui incomincia a prendere corpol’intelligibile; proprio come la forma di Diano illumina dall’interno l’evento.

3.  Si potrebbe dire che intorno alla distinzione fra  Schein ed Erscheinung – cui lei fa cenno nell’incipit del primo capitolo – ruota tutta la sua proposta teorica?

R.B.
: Sì, in effetti la distinzione kantiana mi ha guidato lungo buona parte del libro. Perché è di una verità disarmante. In soldoni: non tutto ciò che appare è, automaticamente, falso e fuorviante. Dipende. Un conto è l’Erscheinung, che, essendo il modo di apparire delle cose, il loro aspetto o ‘sembiante, non inganna affatto. Una cosa diversa è invece lo schein che è la ‘parvenza’. Però bisogna fare attenzione, perché schein in tedesco ha anche un altro significato. Nelle università tedesche, come ricordava tempo fa Maurizio Ferraris, quando un professore, alla fine di un semestre, ti dà uno schein non vuol dire che ti sta ingannando, ma che ti sta rilasciando una specie di certificato, un attestato di frequenza.  Ma entrambe, schein ed erscheinung, apparenza e parvenza delimitano il territorio (tutto il territorio) dentro il quale ci è dato di fare esperienza. Questo vuol dire che, al di là delle oscillazioni di Kant al riguardo (forse era il prezzo inevitabile che egli pagava alla metafisica wolfiana), la ‘cosa in sé’ è una finzione teoretica, un modo per dire, come ha sostenuto di recente Franca D’Agostini, che non siamo onniscienti. Rappresenta il limite invalicabile delle nostre conoscenze; qualcosa che assomiglia molto al Dio della teologia negativa: di esso si può dire solo che ‘non è’.

4.   Perché la pittura occupa, nel sistema delle arti, un posto privilegiato nell’orizzonte dell’apparire del mondo?

R.B.
: Le ragioni di questo privilegio le ha egregiamente espresse il filosofo francese Etienne Gilson, che nel suo libro Peinture et realité delinea una vera e propria ontologia della pittura. A suo avviso, infatti, quegli enti particolari che sono i quadri costituiscono un modello esemplare del mondo. I prodotti del ‘fare’ pittorico esistono in un modo diverso rispetto ai prodotti delle altre attività artistiche. Una poesia, un romanzo, una sinfonia musicale esistono finché li si legge o li si ascolta, o li si esegue. Ma finita l’esperienza della lettura, dell’ascolto e dell’esecuzione, che ne è di quella poesia, di quel romanzo o di quella sinfonia? Da questo punto di vista, esse non sono vere e proprie cose, mentre il quadro sì. Il loro essere coincide con la loro esistenza. In tal senso la pittura può essere considerata un modello esemplare del mondo che appare. Il quadro non solo appare, come tutte le altre cose, ma è fatto proprio allo scopo di apparire. Il pittore, come dice Leonardo, possiede nella mente e nelle mani ciò che nell’universo è “per essentia, presentia o imaginatione”.


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