Ref 2015|EX MACHINA/Robert Lepage|887

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Ideazione, Regia, Interpretazione Robert Lepage 
Direzione, Ideazione Steve Blanchet
Drammaturgia Peder Bjurman 
Assistente alla regia Adèle Saint-Amand
Musica originale, Sound design Jean-Sébastien Côté 
Disegno luci Laurent Routhier
Concezione delle immagini Félix Fradet-Faguy 
Consulente per le scenografie Sylvain Décarie
Consulente per le scene Ariane Sauvé 
Consulente per i costumi Jeanne Lapierre
Manager di produzione Marie-Pierre Gagné 

Roma, 26 Settembre 2015, Teatro Argentina, Romaeuropa Festival 2015

Architetture performativo/visuali ed epica del sé sono presenti in 887, ultima opera dell’artista quebecchese Robert Lepage, di ritorno al Festival Romaeuropa con una produzione della sua compagnia sperimentale EX MACHINA, in occasione del trentennale del Festival che dai lontani anni Ottanta ha fatto della multidisiciplinarietà il suo tratto distintivo, ospitando alcuni tra i primi spettacoli dell’artista, impegnati in termini di sperimentazione audiovisiva e scenica.

In 887 il dato autobiografico si intreccia alle vicende del Québec in un meccanismo poli-stratificato, dove l’io può espletare la propria narrazione solo attraverso l’unione della propria linea esistenziale con quella di una moltitudine indiscriminata di individui. Evocatore dell’ardua sciarada è Lepage, unico attore in carne e ossa a confrontarsi con simulacri video, giocattoli antropomorfi e modellini variopinti. Una collettività inanimata costituita da figure misconosciute a cui è dedicata una piccola strada o un monumento, personaggi celebri come il giornalista Pierre Laporte ̶ di cui viene mostrato un filmato d’epoca della CBC in cui legge un manifesto del FLQ, lo storico Front de Libération du Québec) ̶, l’amico ‘fallimentare’ ed ex-alcolizzato Fred, i condomini della palazzina 887 dell’Avenue Murray (scenario dell’infanzia e della prima adolescenza di Lepage), fino ad arrivare al nucleo famigliare ̶ circa sette tra sorelle, fratelli e genitori, con l’aggiunta della nonna malata di Alzheimer: tutti solcano l’edificio “887”, chi in maniera diretta, chi indiretta, nella narrazione recitata in gran parte in italiano (con accento rigorosamente français).

Il perno attorno al quale si snoda la rappresentazione è costituito dal rapporto tra lIo e il Mondo, di cui è preponderante l’opposizione tra la persona dell’artista e la personificazione dello Stato Canadese, paternalista nelle istanze di omologazione linguistica alla minoranza francofona. Il soggetto, rappresentato da Robert Lepage, è un suo multi-io che si confronta costantemente con l’essere-canadese e con l’ essere-attore, prima ancora con l’essere-figlio (e non padre). Dal taxi i cui fari abbaglianti investiranno la platea nel finale noir della pièce, Lepage/padre ascolta Bang Bang di Nancy Sinatra fumando una sigaretta, azione che compirà anche Lepage/figlio alla fine, in una Ringkomposition di certo melanconica, come sottolinea il Notturno di Chopin accompagnato dai ricordi di infanzia.

Alla composizione ad anello corrisponde anche la recitazione della poesia del 1968 Speak White! di Michèle Lalonde. Adoperandola come pretesto poetico per raccontare del condominio 887 con tutte le implicazioni storiche, politiche e sociali di sorta, Lepage, tenuto a recitarla, suppone una presunta ed irreale perdita di memoria, e inventa un trucco: ad ogni appartamento di quella palazzina, corrisponderà una parte della composizione letteraria, a significare che opera ed “IO” sono mondi compossibili, che si aprono e si chiudono come porte di camere, che rimandano ad altre camere e ad altre porte. I riferimenti alla storia politica degli anni Settanta in Canada si alternano a ricordi di vita domestica (“Hanno ragione, ma hanno torto nel farlo così”, commenta suo padre di fronte alla lettura del manifesto del FLQ alla televisione).

photo Érik Labbé

photo Érik Labbé

La linea narrativa spesso prende pieghe inaspettate, aprendosi a riflessioni sulla capacità dell’illusione a teatro e sulla formazione di Lepage – come l’amaro aneddoto dei gesuiti – ; lo spettatore è immerso in un cristallo di tempo rifrangente che ruota continuamente attorno a sé, alternando melanconia a sarcasmo, satira politica a critica sociale, fino ad esplodere nel monologo di Speak White! indubbiamente rabbioso. Eguale revanscismo suscita il frammento che vede Lepage/figlio che interpreta sé stesso a dodici anni mentre distribuisce giornali e viene perquisito dalla polizia. Con un goffo impermeabile indosso rovescia dalla sua borsa rossa un malloppo di quotidiani mostrandone il fondo vuoto. Offeso, corre via sotto una pioggia di foglie d’acero (simbolo dell’astratta e mistificante bandiera canadese nella sua ultima versione), ma prima di andar via ha da dire che le presunte bombe le ha “nella testa, non nella borsa”.

L’impianto scenografico di 887 è un insieme di plastici e modellini, la scena si fa ora stanza, ora schermo, ora bar, ora interno di un taxi, con una predilezione per gli interni che ricorda il gusto per la modellizzazione dei film di Michel Gondry e Wes Anderson e concettualmente la claustrofobica versione di Cosmopolis di David Cronenberg. Il soggetto è demiurgo e a sua volta giocato e ricreato dagli eventi e dalla storia, psicotico agente di un soliloquio. Lepage interagisce con carni invisibili e fantasmi di memoria, ombre che svaniscono nel nulla (come la bambina che gioca alle ombre cinesi sul letto), proprio come i ricordi.

Impera un sentimento malinconico, richiamato dall’ombra dell’attore frequentemente proiettata sulle pareti della palazzina 887 e dal necrologio commissionato all’amico Fred, celebrandosi per quello che di fatto è un auto-memoriale in vita, affresco di un paesaggio esistenziale e artistico, interpretato con la consapevolezza che “le ballate che si odono oggi sono i successi di domani”, in un tentativo del singolo di tenere assieme le fila delle traiettorie spazio-temporali.

Ed ecco che quella libreria, impossibile da disporsi secondo un ordine alfabetico (fa troppo bibliotecario, poco intellettuale) rimanda a quella analoga del film Interstellar, vettore che permetteva lì alla figlia di comunicare con il proprio padre, qui ritrovata in un’opera teatrale che ricongiunge il padre con il figlio, ma non la storia con il singolo. Di fatti, il grande dato irrisolto di 887 è la registrazione del fallimento delle utopie degli anni Settanta canadesi, che ritornano in un petardo acceso da Lepage e fatto detonare in un bidone, simbolo del ritorno del rimosso e allo stesso tempo mise en ebyme del concetto di rivoluzione – l’utopia separatista. Il gesto prepara lo spettatore al monologo finale, dove emerge la scintilla che ancora accende Lepage durante la declamazione di Speak White!, che fa crollare la Wunderkammen fatta di astrazione e oggettualità, lasciando il posto al pianeta Saturno e alle sue conseguenze.

Il Festival Romaeuropa apre con uno spettacolo di critica sociale e lirismo autobiografico, due istanze che sembrano intrecciarsi sempre più e incontrare il “nuovo realismo” dei giorni odierni. Una configurazione scenica che non disdegna le nuove tecnologie (recorded arts), anzi, le utilizza come impalcature di dispositivi che uniscano alla rappresentazione tradizionale nuove modalità espressive ed estetiche.

photo Érick Labbé

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Redazione

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