Intervista a Paola Bianchi

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Articolo di: Nicola Spano

Foto di: Sara Caroselli

L’ultimo incontro del progetto W.I.P. ha dato spazio a un importante ambito dell’arte contemporanea, la danza. La voce che ci ha parlato di questa forma d’arte è stata Paola Bianchi, danzatrice e coreografa indipendente.

Nella scuola di danza La scatola dell’arte, l’artista ci ha raccontato delle sue performance e di quale idea guidi la loro creazione. Il dialogo, reso ancora più fecondo dal confronto con Elena Cervellati (professoressa presso il DAMS di “Storia della danza e delle arti del movimento”) e Cristina Righi (ricercatrice in semiotica della danza), ha portato a scoprire quella che potremmo definire una ‘danza del corpo’.

E’ il corpo il protagonista della scena nella danza di Paola Bianchi ed è di esso che ci parla la danzatrice in questa intervista.

 

Nicola Spano: Nel nostro incontro hai detto che «il danzatore contemporaneo deve far vedere che c’è fatica a stare sul suolo, c’è fatica a stare su questo mondo». Puoi chiarirci questo tuo senso di danza?

Paola Bianchi: Stavamo parlando della differenza tra la danza classica e la danza contemporanea. La danza classica tende a togliere il peso dal suolo, a contrastare la legge di gravità – le scarpette con le punte, la magrezza dei corpi, la consistenza del tulle con cui è fatto il tutù che ad ogni salto svolazza nell’aria, i volti sempre sereni eppur contratti sotto lo sforzo del corpo, sono solo alcuni esempi di come affronta il rapporto con il suolo. La vera rivoluzione della danza moderna – nella prima metà del 1900 – è stata quella di riportare il corpo ad avere un contatto reale con il suolo e a fare i conti con la forza di gravità e il peso. La danza contemporanea, figlia della danza moderna ed espressione dell’essere umano contemporaneo, non poteva non continuare in questa direzione. Non è necessario che il danzatore mostri la fatica nello stare al mondo, ma semplicemente deve fare i conti con essa.

N. S.: Hai parlato molto del corpo, unico vero protagonista della tua perfomance. Cosa vuoi che esprima quando danzi: ciò che quotidianamente vive e lo attraversa, oppure anche le esperienze che non fa e non può fare tutti i giorni, ma che comunque ha vive e pulsanti dentro?

P. B.: Non è possibile generalizzare. Il corpo di ogni performance è legato al senso più profondo di quel preciso lavoro. Dovremmo analizzare uno spettacolo in particolare ed entrare nello specifico del tema affrontato.

N. S.: In alcuni tuoi lavori hai esercitato il solo ruolo di coreografo. Quanto è difficile trasmettere a un corpo non tuo, cioè ai corpi dei danzatori che guidi, un’idea che invece è incarnata nel tuo proprio corpo?

P. B.: La sapienza dell’interprete sta nel sapersi donare, nella sua generosità. L’interprete ha un’importanza fondamentale nella creazione di ogni mio spettacolo, non è un esecutore, è co-autore dello spettacolo. È attraverso le sue improvvisazioni, attraverso la specificità del suo corpo, delle sue potenzialità, dei suoi limiti, delle sue capacità tecniche che nasce il lavoro. Il fatto che il coreografo decida il tema, coordini e diriga il lavoro, non significa che l’interprete diventi una figura secondaria. Il coreografo opera una scelta all’interno delle proposte del danzatore che sono strettamente legate alla sua esperienza, sono quelle e non altre. L’intelligenza e la forza del coreografo sta nell’indirizzare il danzatore, nel condurlo in un percorso coerente al progetto ma soprattutto nell’aiutarlo a superare i limiti, a scavare dentro, a sviluppare la forza interna del corpo, a valorizzare al massimo le sue potenzialità, a scoprirne altre, a scoprirsi diverso e stupirsene, sempre però restando all’interno della griglia specifica del progetto. Il coreografo deve quindi trasmettere il senso profondo del proprio lavoro, deve coinvolgere gli interpreti facendo in modo che il suo sentire diventi il loro, trasmettere il proprio pensiero, passare loro i testi, le immagini, i mondi che hanno generato il lavoro nel proprio corpo e far entrare tutto questo materiale nel corpo degli interpreti. Solo così il danzatore diventa reale interprete e non esecutore.

N. S.: Abbiamo parlato della difficoltà della danza, e più in generale di tutta l’arte contemporanea, di dialogare con lo spettatore. Hai detto che per evitare la chiusura di quest’ultimo, che spesso ignora l’opera dicendo di non capirla e apprezzarla, un buon modo potrebbe essere quello di incontrarlo alla fine di ogni spettacolo e parlare con lui di ciò che si è visto. Fino a che punto pensi sia necessaria questa pratica? Non hai paura che realizzandola l’opera perda la sua autonomia?

P. B.: Non penso al dialogo con lo spettatore come a un momento in cui viene spiegato lo spettacolo, ma a un momento aperto in cui si possa analizzare il processo creativo e le dinamiche che hanno condotto alla realizzazione dello spettacolo. L’incontro con gli spettatori, che per quanto mi riguarda sono parte attiva dello spettacolo stesso – attraverso lo sguardo soggettivo e molteplice degli spettatori la direzione di ciò che sto facendo paradossalmente si oggettiva, quello sguardo crea la distanza necessaria alla parola –, è un momento di scambio importante per me e per parte del pubblico. Ci sono anche persone che preferiscono uscire dal luogo in cui l’azione si è svolta con la sensazione viva del lavoro a cui hanno partecipato tramite la visione e la condivisione, senza quindi alcun tipo di verbalizzazione. Altri invece necessitano di questo incontro. Credo quindi dovrebbe essere una buona pratica, ovviamente non obbligatoria, ma sicuramente condotta con attenzione e sensibilità, senza portare il discorso sull’esplicazione verbale di un’arte che non contempla la linearità di pensiero tipica della parola. Penso all’analisi del senso della visione e non del significato, dove senso racchiude in sé queste definizioni: la direzione di un movimento; il punto verso cui il movimento è rivolto; la facoltà propria degli organismi animali di avvertire l’azione prodotta da stimoli esterni o interni; lo stato d’animo, il sentimento. La visione nasce nell’intimità, nella soggettività dello sguardo dello spettatore, è lì che lo spettacolo prende forma, acquista il senso della sua essenza, e quello sguardo torna sulla scena modificando esso stesso la percezione interna.

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Redazione

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