INTERVISTA A LUCA DE BEI

0

Luca De Bei è un giovane autore, regista e autore. Da diversi anni lavora instancabilmente nel panorama teatrale italiano. Il suo spettacolo L’uomo della sabbia è andato in scena al Teatro della Cometa.

Luca Sarcinelli: Quali sono state le difficoltà maggiori che hai incontrato nell’adattare per il teatro un racconto come L’uomo della sabbia?

Luca De Bei: Il racconto di Hoffmann è strutturalmente abbastanza complesso. Inizia come narrazione epistolare, con la presentazione di tre lettere. Poi improvvisamente la struttura cambia, ed entra in scena Hoffmann stesso che rivolgendosi direttamente al lettore spiega come sia arrivato in possesso delle missive. Da qui il racconto prosegue poi in terza persona, includendo quella che appare una nuova storia – la bambola meccanica Olimpia – e che poi invece si ricollega alla storia principale. Il finale arriva poi in modo inaspettato ed anche un po’ brusco. Anche lo stile è vario, dal fantastico al grottesco, al filosofico. Dargli un’unità drammaturgica è stato dunque il mio obiettivo. Ho lavorato su diversi piani, mescolando monologhi col pubblico, scene visionarie e senza parole, dialoghi brevi e serrati. Il tutto in modo uniforme, senza sbilanciamenti. La figura del narratore/Hoffmann è diventata fondamentale per accompagnare lo spettatore. Sul finale ho disteso il racconto, creando un sottofinale e preparando il terreno all’epilogo. Anche il linguaggio ha costituito una difficoltà, essendo nel racconto di Hoffmann molto complesso, e difficilmente restituibile. Ho quindi semplificato, riscritto, e persino inventato situazioni che in Hoffmann erano accennate o mancavano del tutto. Questo per rendere i personaggi più psicologici e quindi più moderni. Per fortuna il racconto è talmente bello e potente nel suo effetto perturbatore che ha retto benissimo, a mio avviso, a tutti questi interventi.

L.S.: I tuoi attori hanno partecipato in prima persona, con il lavoro sui loro personaggi, alla stesura del testo definitivo?

L.d.B.: Diciamo che l’hanno fatto inconsapevolmente. Nel senso che abbiamo iniziato le prove solo con poche righe di testo, perciò io conoscendoli, sentendoli parlare e vedendoli agire ogni giorno, ho disegnato su di loro i personaggi.

L.S.: L’uso delle luci nello spettacolo è molto evocativo e ha un taglio cinematografico, a tratti simile al Kubrick di Barry Lyndon. Pensi ci sia nei tuoi lavori, un collegamento tra la prospettiva cinematografica e quella teatrale del testo e dello spettacolo?

L.d.B.: Le luci per me sono fondamentali, in teatro. In molto casi persino più della scenografia. O meglio, le mie scenografie sono spesso fatte anche di luce. In questo caso con Marco Laudando, il mio light designer,  abbiamo lavorato nella direzione di ricreare un’atmosfera gotica, sospesa, con luci che arrivano dall’alto, che ritagliano e mettono in risalto le figure, ma lasciando attorno a loro un’aura di incorporeità, di incertezza, di antico. Abbiamo usato il buio più della luce, abbiamo chiesto allo spettatore di immaginare ciò che l’occhio non è in grado di vedere, o mettere bene a fuoco. Il risultato è stato sorprendente. C’è chi dice di aver visto sulla scena colonne gotiche, chi vetrate di chiese, chi ha visto antri alchemici, chi palazzi immersi nel buio, chi ha visto mostri, chi ha percepito presenze. In realtà la scena è fatta solo di teli neri e di velatini. Il paragone con Barry Lyndon ovviamente inorgoglisce, e in effetti ha un suo senso, in quel film infatti Kubrick inventò un novo modo di illuminare, per esempio solo con la luce delle candele, e fu il primo a sperimentare nuovi obbiettivi per macchine da presa capaci di leggere la luce naturale.  Anche noi abbiamo voluto che la luce delle candele del grande crocifisso che a un certo punto entra in scena, fosse l’unica fonte di luce esistente. E che sempre la luce che illumina gli attori e le scene apparisse in qualche modo naturale, se pur filtrata dalla nebbia che pervade gli ambienti. Per quanto riguarda il taglio cinematografico, la mia idea di cinema applicata al teatro è la composizione dell’immagine, l’uso dei pieni e dei vuoti, il bilanciamento – o sbilanciamento – delle figure. Insomma compongo una scena come se fosse un’inquadratura, o un dipinto. Ma nello specifico teatrale rientra invece tutto ciò che concerne i movimenti degli attori in scena, la geometria delle linee, e le fondamentali leggi della visione prospettica e dell’importanza dei piani sovrapposti.

L.S.: Sei uno degli autori più interessanti e prolifici all’interno del panorama italiano. Come saranno, secondo te, gli anni a venire per il teatro giovane italiano, e quali sono i tuoi progetti di carriera futuri?

L.d.B.: Ovviamente tutto sarà molto difficile, così come lo è adesso e forse anche di più, visto che la nuova classe politica, ugualmente a quella appena mandata a casa, non sembra voler investire nella cultura, nell’arte, nello spettacolo. Ma è anche vero che è proprio nei momenti di crisi che è necessario e fisiologico tirare fuori le unghie, inventarsi nuovi metodi sia per allestire gli spettacoli sia per poi andare in scena. Il teatro non morirà mai, ma mai come ora per far sì che diventi utile e significante ha bisogno di nuove energie, nuovi stimoli e nuova linfa. Forse il fatto che il vecchio teatro, così come lo abbiamo concepito finora, stia scomparendo, aprirà delle porte a chi saprà cogliere nuove occasioni.  E questo, quando le vecchie forme si sgretolano, è più facile e per strano che possa sembrare in parte sta già accadendo. Bisogna però  puntare sulla qualità e sull’impegno, senza dimenticarsi di ciò di cui la gente ha disperato bisogno: una storia in cui riconoscersi, emozioni da condividere, idee su cui riflettere. Per quanto riguarda la mia carriera sto puntando sempre di più sulla regia, anche su testi non miei – il prossimo progetto sarà su un testo del grande Annibale Ruccello -. Inoltre voglio continuare ad alimentare anche la mia vena di attore, visto che per me testo-regia-interpretazione si compenetrano e vanno di pari passo. E infatti a gennaio sarò solo in veste di attore in un bellissimo monologo di Vittorio Moroni – anche sceneggiatore cinematografico, per esempio nell’ultimo film di Emanuele Crialese -, e diretto da un regista di talento come Giuseppe Marini, il tutto prodotto da Franco Clavari e Norma Martelli. Il Grande Mago, questo il titolo del monologo già finalista al Premio Riccione, è la storia vera di un uomo, padre di famiglia, che decide di cambiare sesso scontrandosi inevitabilmente con il perbenismo e le leggi ipocrite di una società che fa ancora fatica ad accettare la complessità e le sfaccettature dell’essere umano.

 

Print Friendly, PDF & Email
condividi:
   Send article as PDF   

Autore

Avatar

Webmaster - Redattore Cinema

Lascia un Commento

Continuando ad utilizzare il sito, l'utente accetta l'uso di cookie. Più info

Le impostazioni dei cookie su questo sito sono impostati su "consenti cookies" per offrirti la migliore esperienza possibile di navigazione. Se si continua a utilizzare questo sito web senza cambiare le impostazioni dei cookie o si fa clic su "Accetto" di seguito, allora si acconsente a questo.

Chiudi