Intervista a Daniele Villa

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Articolo di: Alberto D’Amico

Foto di: Sara Caroselli

Daniele Villa ha mosso i primi passi in campo artistico, scrivendo di cinema insieme a Luciano Barcaroli e Carlo Hintermann realizzando libri-intervista per la casa editrice Ubulibri, intervistando, tra gli altri, il regista georgiano Otar Ioseliani, Takeshi Kitano e Terrence Malick. Villa ha anche prodotto The dark side of the sun diretto da Carlo Hintermann, che tratta il delicato tema dei bimbi affetti da Xeroderma Pigmentosum, una rara malattia, che costringe a proteggersi perennemente dal sole.

Dedicandosi a tempo pieno all’arte contemporanea dopo la visione della prima retrospettiva completa di Kurt Schwitters al Centre Pompidou ha iniziato a lavorare fruttuosamente con la tecnica del collages, creando un percorso originale e significativo dal forte contenuto concettuale ed evocativo.

Nel 2011 è stata inaugurata  Da grande sarò morto, una mostra personale nella galleria Zelle Arte Contemporanea.

Info: sito Daniele Villa

Alberto D’Amico: Hai parlato del primo periodo in cui eri attivo in ambito cinematografico, Dell’esperienza Citrullo International, dei libri intervista ma dentro di te già pensavi alle arti visive. Puoi raccontarci delle motivazioni che ti spingevano verso l’arte, e del perché hai deviato verso il cinema per un certo periodo queste spinte?

Daniele Villa: Fin dall’università ero fortemente combattuto fra la mia passione per il cinema e quella per l’arte. Non a caso nel mio percorso di studi alla facoltà di Lettere gli esami erano equamente divisi tra queste due discipline e studiavo molto un territorio di confine come quello del cinema sperimentale, d’avanguardia, della video arte e del cinema d’animazione. Poi ho deciso di indirizzare le mie energie verso il cinema, complice la scoperta della Nouvelle Vague e di un modello di approccio collettivo e dialogico tra i cineasti dello storico movimento che mi sembrava la risposta all’atomizzazione e all’isolamento solipsistico da cui allora, a metà degli anni novanta, eravamo afflitti (ora la situazione è diversa e i ragazzi che hanno ora vent’anni scelgono spesso di unirsi per portare avanti insieme i loro progetti, cosa che me li rende spesso più vicini a molti ‘individualisti’ della mia generazione) .
Questo mi spinse, poco più che ventenne, a chiamare due amici, appassionati come me di cinema, Carlo Hintermann e Luciano Barcaroli, a collaborare insieme, prima per l’apertura di un fantomatico e mai realizzato cineclub nel quartiere periferico romano del Trullo (Cine-Trullo, poi divenuto Citrullo) – per cui contattammo nientemeno che Jean-Luc Godard – e poi per realizzare libri intervista con la piccola casa editrice con cui collaboravo (in seguito approdammo a Ubulibri).
Questa scelta veniva anche da una motivazione etica: sentivo che insieme, uniti, avremmo potuto cambiare qualcosa nel panorama culturale italiano, e loro erano le persone giuste per la loro curiosità, passione e onestà intellettuale (doti comuni anche a Gerardo Panichi, il regista e produttore con cui in seguito fondammo la casa di produzione indipendente Citrullo International). Non cambiammo poi niente – non si cambia forse mai niente in senso assoluto, ma è importante cercare di dare un contributo onesto e personale; facemmo però delle grandi esperienze insieme.
Questo dedicarmi al cinema è stato quindi forse dettato anche dal bisogno di un confronto con gli altri su un piano creativo e etico, e il cinema, arte collettiva per eccellenza, con la sua grande retorica linguistica e l’impatto che questa può avere sullo spettatore è un ottimo territorio per interrogarsi sul valore dell’arte e sulle sue motivazioni profonde.
L’arte è invece più ambigua nel suo linguaggio, ma più intima – cosa che mi ha sempre affascinato – nel suo essere prodotta, perché risponde forse con minori mediazioni all’urgenza espressiva dell’artista, mentre nel cinema ci sono molte fasi di ‘verifica’ e ‘traduzione’ dell’idea iniziale, dalla sceneggiatura, alla scelta degli interpreti e dei collaboratori, alle riprese, al montaggio, con tempi molto lunghi. Come essere fedeli dopo tanto tempo alle proprie urgenze passate?
Certo nel mondo dell’arte ci sono i curatori e i galleristi a mediare, ma mi sembra che con l’arte, almeno la mia, fatta di piccole cose, sia tutto più immediato e realizzabile e si possano trovare tante soluzioni differenti per mostrare il proprio lavoro. Basta essere aderenti al proprio percorso.

A.D’A.: Il tuo uso del collage è molto parco, in genere utilizzi due immagini, che metti in relazione con grande attenzione alle assonanze formali ma anche alla ricerca di un senso seppure onirico o paradossale, possiamo azzardare che sia una metafora del tuo passaggio dal cinema all’arte contemporanea? Che possa rappresentare le affinità e le incongruenze di due mondi che hanno analogie e differenze?

D.V.: Non credo ci sia un legame diretto, anche se sicuramente la mia passione per il cinema ha nutrito la mia cultura visiva – e associativa. Volendo argomentare credo che nella vita io proceda come nel mio lavoro: accumulo, faccio lungamente sedimentare per anni, e cambio direzione con decisione e un pizzico di violenza. Mi si perdoni il gioco di parole, ma strappo, dunque, con il passato. Poi mi fermo a capire il perché di quella necessità insopprimibile che mi ha spinto a cambiare e cerco, talvolta riuscendoci, ad armonizzare i diversi momenti. Ma le cicatrici, come i segni dello strappo, pur eleganti, ci sono e sono visibili anche nel nuovo equilibrio. Forse è questa la lettura per me più onesta.

A.D’A.: Il tuo lavoro poi si è spinto verso la produzione oggettuale, alle installazioni e alla performance, vedi in questo un riemergere della polisemicità del cinema, un ritorno al movimento nel lavoro artistico oppure a un’esigenza di mostrare il processo artistico nel suo farsi?

D.V.: Penso (e spero) che stia pian piano esplodendo un mio universo molto circoscritto, ma anche precisamente definito. Questo attualmente mi permette e mi spinge ad abbracciare campi anche apparentemente distanti tra di loro. E in questo sicuramente il cinema anche se non è un punto di riferimento diretto, è presente proprio nel suo farsi incontro tra diverse arti e nella tensione etica del rapporto con lo spettatore.

Quello che mi preme ora è infatti cercare un calore e una ‘umanità’ maggiore nel lavoro. Non so ancora cosa voglia dire con precisione, ma è il mio diktat da mesi. Ed è questo forse che mi permette di mostrare serenamente la fragilità e l’arbitrarietà del processo creativo.

A.D’A.: Collabori in maniera stabile con un musicista, hai creato un’installazione creando box musicali dei musicisti all’interno di due armadi, pensi che la musica sia esterna alle arti visive o che in questa fase ogni barriera sia diventata inutile e anacronistica?

D.V.: Penso che ci sia da tempo la possibilità di scegliere liberamente cosa si vuol portare allo spettatore e come farlo – purché abbia un senso per l’artista.

Per me l’utilizzo della musica è un’apertura verso una componente del lavoro fortemente avvolgente ed emotiva. E in questo poter collaborare con musicisti vulcanici e versatili come Aleksandar Caric Zar e Luca Venitucci è una fortuna enorme, innanzitutto perché la loro entusiastica adesione mi permette di realizzare idee al limite della fattibilità (per la performance In Cage li ho rinchiusi a suonare ognuno in un armadio per ben due ore e mezza), poi perché ci conosciamo e collaboriamo da molti anni e condividiamo una certa divertita visionarietà.

A.D’A.: Vuoi parlarci degli ultimi progetti e anticiparci la direzione generale del tuo lavoro nel prossimo futuro?

D.V.: Dopo le tappe in Portogallo, Serbia e a Roma dell’anno scorso, gireremo un po’ con Synchronotopy, la performance che presentiamo con Zar a Teatri di Vetro e che avrà una circuitazione anche in festival che si occupano di altre discipline, come ad esempio le arti di strada. Un’occasione importante per confrontarsi con pubblici differenti. Ci stiamo poi pian piano industriando per organizzare un tour da Trieste a Istanbul attraverso i Balcani (un territorio che amiamo e condividiamo in modo diverso con Zar; lui è serbo, io di origini triestine e istriane).

Intanto sto lavorando a una installazione che comprenderà un’intera stanza, o forse addirittura più stanze, in cui gli oggetti, i quadri, la mobilia, facciano immergere in un’identità immaginaria, con suggestioni quasi salgariane. Ci sarà forse ancora la musica a rafforzare l’idea di una presenza umana e vitale; sono aperto a tutto in questo momento e spero di riuscire a far confluire tutte le suggestioni in una sintesi che non tradisca il ribollio su cui poggerà.

 

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Redazione

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