HERZOG E MURNAU: i padri (il)legittimi del culto di Twilight

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Nell’epoca di Twilight o di The Vampire Diaries, in cui dei caratteri del vampiro originario sono rimasti, forse, solo i denti aguzzi, faremmo bene a guardare di nuovo alle origini: quando il vampiro era un’entità malvagia e senza scrupoli che amava solo il sangue, non ogni ragazzina del liceo. Tutte le pellicole che raccontavano queste vicende erano horror reali senza spazio a sentimentalismi e improprie emozioni, e soprattutto, senza le commistioni tra il mondo fantasy e le leggende popolari.

Il vampiro cinematografico più originale e ricco di risvolti psicologici, per quanto antico, resta Nosferatu di Murnau e poi di Herzog; questi era un essere rassomigliante nelle forme a Gollum de Il signore degli anelli: una creatura alienata e appartenente a una realtà molto lontana dalla nostra.

Il “non spirato” prima in bianco e nero e poi a colori, prima muto e poi dotato di una lugubre e fredda voce donatagli per l’Italia da Sergio Graziani, forse si scatenerebbe contro i suoi giovani posteri: l’ideologia e la storia di Stoker sono molto lontani da quella che è oggi l’immagine del vampiro.

Nosferatu di Herzog invece porta con sé tutto il fascino conturbante dell’antenato del 1922 e, se possibile, lo amplifica: il tormento, in una delle prime scene, quando il giovane Harker si ferisce con un coltello, è rappresentato con un tremore che percorre lo spettatore spiazzato dai momenti di quiete e dagli immediati scatti d’ira del Conte Dracula. Non c’è bisogno di attimi di passione alla Via col vento per dare anima al protagonista che regge benissimo il suo ruolo: il velo poetico che lo umanizza, ma non troppo, è necessario per creare la giusta suggestione e non sfocia mai nell’eccesso.

Il film  del 1978 si rifà completamente alla pellicola di Murnau, più che al testo originale di Stoker, e viene modernizzato con eleganza, quasi in punta di piedi, ma con un lavoro dai risultati stupefacenti senza perdere i tratti psicologici del Conte Dracula: egli soffre, sembra essere dilaniato da un conflitto interiore a cui non può sfuggire.

Ogni elemento del film originale è pregno di un significato che non si smarrisce nel remake. Ad esempio la terra, di cui sono piene le bare trasportate fino a Wismar, dovrebbe essere in netta contrapposizione con il mare, scelto come mezzo di trasporto e da sempre, come ci insegna Shakespeare nell’ “Antonio e Cleopatra”, pregno della doppia valenza di vita, ma anche di morte. L’acqua diviene un limbo inquietante che muta inaspettatamente, e la terra, invece di essere strumento per la vita e la rinascita, si accosta alla mutevolezza del mare trasformandosi in un simbolo di morte, creando una compattezza di significato che culmina nella presenza dei topi, da sempre animali portatori di malattia, come la peste, e paura.

L’accortezza nello scegliere i momenti di silenzio e le musiche inquietanti, ma mai invadenti – come il suono del violino imbracciato da un bambino scalzo nell’androne deserto del castello – fa di questa pellicola una perla della cinematografia horror, troppo spesso aiutata da colonne sonore quasi esagerate che suggeriscono quando e come avverrà il colpo di scena.

La differenza rispetto al film di Murnau è che il male trionfa. Nonostante il sacrificio della bella Lucy, preannunciato dall’immagine di un’orda di topi che assalgono un banchetto, il finale carico di erotismo non concede remissione. Un mostro, il Nosferatu, finalmente spira, ma il male ha trovato terreno fertile nel corpo di Jonathan e da qui si propagherà, forse, fino al giovane Edward che, rammollito dal tempo, porta comunque la croce originaria della stirpe vampiresca.

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