Speciale TdV9 | Intervista a Paola Bianchi

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In occasione della nona edizione del Festival Teatri di Vetro, con direzione artistica di Roberta Nicolai, che si svolgerà a Roma dal 1 al 15 novembre, la redazione di Nucleo Artzine ha intervistato gli artisti invitati all’evento.  Molti gli ospiti e molte le sedi in cui verrà accolto uno dei più interessanti eventi della scena teatrale italiana contemporanea che quest’anno propone una riflessione molto interessante rispetto al momento che vive il mondo dell’arte oggi, quest’edizione è stata infatti chiamata “La comunità che viene”.

Ecco cosa ci racconta Paola Bianchi, artista cara a Teatri di Vetro, del suo lavoro ZERO che andrà in scena l’11 novembre presso la Centrale Preneste di Roma alle ore 21:00.

Paola Bianchi, danzatrice e coreografa indipendente.
La sua ricerca artistica si concentra sul gesto e sulle possibilità sceniche dell’azione teatrale coreografata.
Oltre a numerose collaborazioni con artisti delle più varie provenienze, crea nel 1994 la compagnia AGAR e, più tardi, nel 2009 costituisce il [collettivo]c_a_p. Nel 2014 viene pubblicato, per la casa editrice Editoria&Spettacolo, un testo di cui è autrice: “Corpo politico-distopia del gesto, utopia del movimento”. È da sempre molto attiva nella promozione e nell’organizzazione di festival, rassegne e laboratori riguardanti la danza ed il teatro contemporaneo.

Paola Bianchi.ZERO.(c)P-P-Rodighiero

© P-P-Rodighiero

1. Il tuo ultimo lavoro, ZERO, ha come focus un’esplorazione corporale dei personaggi teatrali di una grande, cupa e sarcastica personalità del passato: T. Kantor. Come mai hai deciso di affrontare con il tuo corpo, oggi, uno studio sui personaggi del regista della ” Classe morta”? Che senso ha per te, a livello umano e sociale, trattare il lavoro di Kantor a cento anni dalla sua nascita e nel 2015?
Da molti anni la figura di Tadeusz Kantor si insinua a tratti nel mio percorso. Il lungo lavoro di studio e di ricerca è sfociato nel mese di aprile 2015 con la realizzazione dei cinque radiodocumentari Tadeusz Kantor: il circo della vita tra memorie e fantocci, prodotti dall’associazione culturale Agar in collaborazione con l’Istituto Polacco di Roma, la Cricoteka di Cracovia e Polskie Radio, andati in onda su Rai Radio 3. I radiodocumentari, realizzati insieme a Silvia Parlagreco – studiosa italiana di Kantor – fanno rivivere le messe in scene dei principali spettacoli dell’autore attraverso un racconto fatto di suoni e parole; nell’ascoltatore balzano evidenti le immagini, e le scene degli spettacoli riacquistano tutta la loro forza.
La creazione di ZERO è stata quindi per me la naturale conseguenza di questa ricerca approfondita. In particolare mi sono concentrata sull’uso dello spazio e sui corpi del suo teatro, li ho analizzati, sezionati, li ho estrapolati dal contesto degli spettacoli, li ho vissuti e trasformati nel mio corpo. Scavando in profondità sono giunta ai disegni delle figure umane di Tadeusz Kantor, metabolizzando la tensione muscolare che li attraversa; figure umane perse nel foglio bianco, in quel non-luogo che ricorda la scena. La mia indagine si è poi spostata sul contesto culturale/pittorico che Kantor ha vissuto, lavorando sui quadri di Matejko, Bruno Schulz, Malczewski, Wojtkiewicz. Una pittura lontana dalla ricerca pittorica di Kantor e per questo ancora più importante. A partire da quei quadri, da quei colori, dalle tensioni interne ai corpi ho elaborato una mia strada che mi ha condotta a lavorare sul vuoto interno, sulla morte e sulla vita. ZERO è quindi un percorso a ritroso sull’opera di Kantor, un percorso che si chiude sul mio corpo e su quello di Giuseppe Tordi che con me condivide la scena. Giuseppe non è un danzatore e la sua funzione sulla scena è quella di delimitare e ordinare il campo d’azione; potrei dire che il suo stare, il suo essere lì, è il necessario contrappeso al mio continuo entrare e uscire dal dramma.
ZERO non è uno spettacolo su Tadeusz Kantor o sul suo lavoro e, pur essendo denso di riferimenti alla sua opera, non è neanche un omaggio a Tadeusz Kantor. ZERO è un dialogo con i corpi del suo teatro, corpi estrapolati dalla scena, corpi che hanno attratto il mio sguardo; corpi veri e corpi disegnati che nella mia personale visione vivono avulsi dal contesto. Dare nuova vita a quei corpi può essere un modo per guardare all’opera di Kantor da un altro punto di vista, forse modificando/attualizzando il nostro sguardo sulla sua opera.

2. Nella descrizione del lavoro che presenti a TdV9 scrivi: ” un niente carico di senso ” e, poco dopo, ” un corpo fuori contesto che rifugge un senso logico”, come hai affrontato la tua ricerca artistica e soprattutto fisica rispetto a queste due affermazioni? Che peso pratico hanno avuto?
Kantor scriveva molto e spesso registrava in voce i propri scritti. La raccolta delle sue registrazioni si trova presso l’archivio sonoro della Cricoteka di Cracovia dove per un periodo mi è stata concessa una postazione di lavoro. Lì ho estrapolato da quelle registrazioni tutto il “non detto” da Kantor, i suoi respiri tra una parola e l’altra, i suoni dell’ambiente, i rumori dell’accensione e dello spegnimento del registratore stesso. Quel niente interposto tra una parola e l’altra è diventato traccia sonora, partitura drammaturgica, un niente carico di senso proprio perché preceduto o seguito dalle parole di Kantor – parole sempre calibrate, pesate e pensate. A una delle tracce sonore quindi si riferiva il “niente carico di senso”.
I corpi che attraversano il mio corpo, deformandolo e sconquassandolo, sono liberi dalla logica drammaturgica temporale in cui erano immersi. Sono corpi autonomi che in quanto tali ho lasciato fluire senza cercare una connessione tra loro. Ho partorito quei corpi con il mio corpo senza chiedermi chi fosse il padre e li ho lasciati liberi di percorrere quel piccolo spazio che è la scena imponendomi di non dare loro una sequenza logico-drammatica. Li ho vissuti in libertà e così li vivo a ogni replica, ognuno con la propria piccola storia indipendente dalla mia volontà. La partitura è estremamente definita, forse più che negli altri miei lavori, ma il processo creativo è fluito leggero, passando attraverso quell’esercizio quotidiano di sguardo che è proprio del mio lavoro di coreografa.

3. Vista la tua esperienza nelle collaborazioni con artisti di altra provenienza non posso non chiederti come si è sviluppata la creazione di ZERO rispetto agli artisti che si occupano delle altre componenti in un lavoro teatrale cioè il sonoro e la luce. Come si è sviluppata la collaborazione tra voi, è stata una composizione collettiva? Mi riferisco soprattutto alla partitura sonora di cui parli e al lavoro sulle registrazioni provenienti dall’archivio della Cricoteka di Cracovia.
In questo lavoro la collaborazione più importante è stata con Paolo Pollo Rodighiero che ha curato il disegno luci. Abbiamo lavorato insieme in teatro (prima al Teatro Cantiere Florida di Firenze poi al Lavatoio di Santarcangelo di Romagna) per tre settimane – un lusso visti i tempi e la poca attenzione per la ricerca. Dopo un breve periodo di lavoro in solitudine in piccole sale poco adatte alla danza, abbiamo avuto l’opportunità di abitare teatri deserti per la calura estiva e lì il lavoro si è sviluppato con estrema facilità. Le mie visioni prendevano forma e attiravano la luce in un processo fluido di creazione parallela.
Il sonoro ha acquistato negli anni un peso molto importante nei miei lavori e l’attenzione che pongo costantemente verso questo aspetto mi ha spinta a lavorarci in autonomia – non per mancanza di fiducia ma per avere la possibilità di sperimentare fino in fondo le mie intuizioni. In ZERO quindi i suoni sono stati elaborati per la maggior parte da me, sia nelle fasi di registrazione che in quelle di montaggio. Un solo brano vede la collaborazione di Fabio Barovero, musicista con il quale da anni è vivo un ricco scambio.

4. La campagna di promozione tramite social network di TdV9 si è basata ironicamente sull’assenza, all’interno del festival, di personaggi come star o intellettuali/artisti, magari già morti. È questo un evidente riferimento al passato e all’oggi. Come si rapporta invece la vostra presenza al festival rispetto al suo titolo “La comunità che viene” che si sbilancia fortemente verso il futuro? Verso che tipo di possibile o impossibile – seguendo l’hashtag # lacomunitàchenonviene – comunità ci stiamo proiettando?
Non credo nella comunità tout court, credo in piccole comunità provvisorie che si creano e si disfano lasciando tracce dietro di loro.

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