MICHEL DE MONTAIGNE: UNO SGUARDO MODERNO SULL’ALTERITA’

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Quando si comincia a leggere il saggio di Michel de Montaigne Sui cannibali si ha subito la sensazione di essere catapultati in un locus amoenus primigenio e originale, privo di pregiudizi ma ricco di valori: quelli dell’umanità, della giustizia e dell’uguaglianza sociale. Come acutamente afferma Sergio Benvenuto, Montaigne utilizza l’espediente del racconto della visita, presso il re di Francia Carlo IX, di una delegazione di tre indigeni delle Americhe, per un’analisi critica dell’intolleranza, del fanatismo e dell’efferatezza degli “uomini civili” francesi impegnati nelle guerre di religione, di contro alla semplicità di costumi degli indigeni americani, così inconsapevolmente vicini all’archetipico ideale umano vagheggiato da Platone.

I popoli del Nuovo Mondo, infatti, permettono a Montaigne di contestare il significato europeo di “civiltà” quale simbolo di onesta, giusta, universale e unica identità culturale possibile, per sottolineare, invece, la necessità di recuperare un’autentica relatività di valori. Una difesa, contro i costumi corrotti del vecchio mondo, della variopinta vita dei popoli selvaggi più vicina alla purezza originaria e alla legge di natura; una vita coraggiosa e virtuosa, non ancora “imbastardita” anche se “contagiata” dalla malattia europea della corruzione sociale.

I selvaggi non sanno cosa sia la menzogna, il simulare e il dissimulare, l’avarizia, il tradimento… Amano per amare, vivono per vivere, lottano per proteggersi; nella loro semplicità originaria, nello stretto legame con i sensi, possono essere definiti “barbari” solo se li assolutizziamo a partire dalle nostre categorie mentali.

Proprio in ciò sta la straordinaria modernità di Montaigne: egli non propone né un nostalgico paradiso perduto, né un ideale utopico; la sua è una polemica contro l’uso dogmatico della ragione incapace di comprendere il diverso. Universalizzando, in modo arbitrario, usi e costumi ai quali siamo avvezzi, solo perché appartenenti a quel paese d’origine, finiamo per annichilire l’alterità. Il rousseauniano mito del buon selvaggio, dello Homme-animaux umile ai nostri occhi ci insegna che occorre calarsi nella dimensione dell’Altro per comprenderlo, per accoglierlo. Se noi rileviamo orrore di fronte ad episodi di cannibalismo, frequenti tra i sauvages che mangiavano i loro antenati per appropriarsene in modo da renderli immortali, perché il barbaro non dovrebbe rabbrividire di fronte a coloro che si millantavano “civili”, ma che durante le guerre di religione, laceravano con supplizi e martiri un corpo ancora sensibile solo per annientarlo?

Montaigne ci fa riflettere, dunque, sul fatto che non possono essere il nostro sviluppo economico, la nostra magnificenza culturale, il nostro potere politico, il nostro “sentirci occidentali”, i parametri atti a definire il grado di civiltà di una nazione, di un popolo. Sono i concetti sempiterni di humanitas, libertas, pax, calati nel relativismo valoriale di ogni determinato tessuto sociale, a decretare cosa sia il giusto e l’orrore. Non lo straniero e il selvaggio tout court: essi sono l’inattingibile, l’unicità, l’eccezionalità sfuggente… perché stupidamente crediamo di abbracciare tutto, ma “stringiamo solo il vento”.

DEI CANNIBALI

Autore Michel de Montaigne

Casa editrice Mimesis, collana MINIMA/VOLTI, 2011, Milano-Udine

http://www.mimesisedizioni.it/

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Autore

Valentina Cucchiaroni

Caporedattrice della sezione Arte di Nucleo Artzine, appassionata della scena artistica contemporanea, ha studiato filosofia teoretica alla Sapienza di Roma.

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