TOLKIEN INCONTRA JARRETT – Intervista al pianista Alessandro Gwis

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RICORDI DI UN HOBBIT TRA LE NOTE DI KEITH JARRETT

Spettacolo di teatro e musica scritto da Sebastiano Fusco e Gianfranco de Turris

con:

Antonino Anzaldi

Rita Pasqualoni

Carlotta Piraino

Antonio Radazzo

Gennaro Saveriano

Musica

Alessandro Gwis- Pianoforte

Michael Rosen- Sax tenore e soprano

Costumi e scenografia: Francesco Bufali

Regia: Ilaria D’Alberti

dal 14 al 16 febbraio, ore 21, Casa del Jazz Roma

Sito Casa del Jazz

Sito Alessandro Gwis

Ma giunti che furono nel Vuoto, così Ilùvatar parlò: “Guardate la vostra Musica!”. Ed egli mostrò loro una visione, conferendo agli Ainur vista là dove prima era solo udito; ed essi scorsero un nuovo Mondo reso visibile al loro cospetto, e il Mondo era sferico in mezzo al Vuoto, e in esso sospeso, ma non ne era parte

Come nel Silmarillion, dove Tolkien racconta la Terra di Mezzo all’epoca della Prima Età del Mondo, così anche in scena, alla Casa del Jazz, la musica accompagna la visione di un mondo fantastico, popolato dai personaggi descritti nella più popolare saga tolkieniana, Il Signore degli Anelli. L’anziano Sam Gamgee, lontano negli anni dalla partenza di Frodo dai Porti Grigi, conduce i presenti nel viaggio dei ricordi delle imprese favolose alle quali ha assistito, mescolando la malinconia ad una velata nostalgia delle trascorse avventure. La figlia Elanor, dolce conforto, si fa interprete delle curiosità dell’uditorio, e crea l’attesa della rievocazione onirica. Come in un sogno, dal palco emergono le ombre delle figure incontrate nel tempo…

Tra le particolarità di questo evento la più singolare è certamente l’accostamento tra la piece fantasy e la musica jazz, eseguita sul palco da Alessandro Gwis al pianoforte e Michael Rosen ai sax tenore e soprano.

Incontriamo Alessandro Gwis dopo aver assistito alla prima dello spettacolo, colmi di curiosità per ciò che abbiamo visto in scena.

Laura Velardi/ Con quale criterio vi siete mossi, tu e Michael Rosen, nella scelta del repertorio da accostare alla pièce teatrale?

Alessandro Gwis/ Michael ha avuto l’idea di suonare esclusivamente temi di Keith Jarrett, per un duplice motivo: il carattere quasi folk di certi temi jarrettiani – quelle che Miles Davis definiva, forse con una nota di ironia, le “sue melodie irlandesi”- e l’ accostamento temporale; infatti Tolkien e Jarrett conobbero -almeno in Italia- una grande fortuna più o meno nello stesso periodo, e cioè gli anni ’70, e per quanto sia arbitrario, ci è venuto spontaneo accostarli.

L.V./ Quali sono, secondo te, le associazioni che avvicinano il contesto Tolkieniano al jazz? E’ vero che Tolkien, come riportato nel suo epistolario, non amava molto questo nuovo genere? 

A.G./ E’ vero, Tolkien non amava il Jazz, o perlomeno lo conosceva poco. Ne parla solo in una lettera del 1944, nella quale egli, lamentandosi della standardizzazione dei gusti imposta dalla società di massa, scrive con allarme che ‹‹ …la musica lascerà il posto al jazz››,come per dire che il jazz non è musica, aggiungendo altri giudizi poco lusinghieri -e non troppo informati. Confesso peraltro che le inclinazioni personali di Tolkien in fatto di musica non mi sembrano troppo rilevanti. (nota: la lettera è a pag 103/104 del libro “La realtà in trasparenza”, Bompiani 2001)

L.V./ Keith Jarrett, che ha da sempre la fama di personaggio difficile e scontroso, due anni fa lanciò la polemica: «I pianisti classici non hanno uno sfogo per tutta quella musica che hanno dentro. E allora cercano di mettere qualcosa di personale dentro Mozart, o Beethoven, uno sforzo terribile. […]Ecco perché i grandi pianisti rischiano la schizofrenia. Lo stress produce un modo di suonare meccanico, la fedeltà è una trappola: io cerco di non essere fedele nemmeno a me stesso- il cervello è ingannatore, le dita gli dicono cose che, da solo, non immaginerebbe mai». (da un’intervista rilasciata nel 2009 al Corriere della Sera)  Cosa ne pensi tu dell’immaginazione nel jazz? E quanto vi ha aiutato, nell’improvvisazione durante lo spettacolo, l’immaginario evocato dagli attori e dalla pellicola che scorreva sullo sfondo?

A.G./ Premetto che, con tutto il rispetto dovuto ad una simile leggenda del jazz, l’analisi di Jarrett sul pianismo classico mi sembra davvero di un semplicismo sconcertante, ammesso che le sue parole siano state riportate fedelmente. Avere o non avere uno spartito davanti non è di per sé garanzia di un maggior respiro artistico o di una minore “meccanicità”. Ci sono musicisti classici che riescono a liberare un’enorme energia creativa nell’interpretazione, pur non improvvisando, mentre ci sono jazzisti che sono meccanici e poveri d’immaginazione anche se non hanno a che fare con la musica scritta. Tralasciando il fatto che la pretesa di interpretare la musica classica senza una “visione” è molto discutibile (io sospetto che nell’interpretazione la “visione” personale della musica esca comunque, consciamente o no, indipendentemente dalla volontà di reprimerla), io credo che la parola “improvvisazione” sia scivolosa e ambigua e vada maneggiata con cautela; per me le cose sono un bel po’ più complesse. Certamente il Jazz, ammesso e non concesso che sia possibile definirlo in modo preciso, cosa che non credo, è un linguaggio che offre delle potenzialità enormi e permette una grande libertà espressiva. Ma la sfida più affascinante del jazz è la necessaria coniugazione di libertà e disciplina, di individualismo e collettivismo -davvero nel jazz “libertà è partecipazione”!-, di innovazione e tradizione. L’orizzonte di libertà del jazz è cosa ben più profonda e affascinante della semplice possibilità di suonare “senza uno spartito davanti”. Le immagini del film…sono state uno stimolo, ma avevano anche una potenza iconografica con la quale a volte era impegnativo confrontarsi. In fondo, noi avevamo solo un piano e un sax, quelli avevano legioni di Orchi, cavalieri dallo sguardo terribile, mostri volanti, torri altissime e abissi! Il confronto era un po’ impari….ma era divertente lo stesso.

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