QUANDO SI MORIVA DI CORAGGIO

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Dimenticate, se possibile, Giuseppe Ayala nel ruolo di Pubblico Ministero. Svestito della toga d’ordinanza, a vent’anni dalla scomparsa di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, si manifesta al pubblico in tutta la sua profondità e franchezza, dimentico di funzioni e titoli ufficiali di sorta.

Sceglie il teatro come nuovo mezzo di comunicazione, che non è poi così diverso da un’aula di Tribunale. Ovunque sia chiamato a operare, Giuseppe Ayala si muove alla ricerca della verità da condividere con una platea, per affermare ideali di umanità, giustizia e libertà, con una tenacia e un coraggio di rara fattezza. Eppure non si sente un eroe, ma una persona come tutti gli altri.

Sul palco, allestito in modo semplice e naturale, campeggia l’albero di magnolia, divenuto simbolo della lotta alla mafia. Trovandosi nel giardino di casa Falcone, viene continuamente inondato di messaggi. Oltre alla pianta, poche sedie, uno schermo per le proiezioni e la voce narrante di Francesca Ceci che sintetizza, con una fermezza non priva di pathos, drammatici passaggi di cronaca.

Lo spettacolo è strutturato con intelligenza. Fedele amico e leale collaboratore di Falcone e Borsellino, nella prima parte della performance, Ayala decide di rievocare questi due miti nelle loro vesti umane: l’atteggiamento schivo di Giovanni e quello più goliardico di Paolo, l’intesa profonda come frutto di un’amicizia scevra da ipocrisie, la gioiosa condivisione di momenti di vita familiare, viaggi, confidenze, serate in allegria assieme ai bambini.

Egli è rapito da quei lontani ricordi, profumi soavi di un passato ormai remoto, sepolto, bombardato.

L’idillio è disintegrato dal tritolo: due devastanti esplosioni scrivono una nuova pagina di storia. Una storia più inquietante, costruita sulla connivenza tra Cosa Nostra e le istituzioni dello Stato, che si affrontano in un match fatto di giocatori interscambiabili, un po’ dell’una un po’ dell’altra squadra. Una partita truccata, insomma. Tra delusioni, invidie dei colleghi, diffamazioni gratuite, lettere anonime, stanchezza estrema e – diciamolo pure – una vita di merda, in quanto blindata, si arriva, attraverso la collaborazione di Tommaso Buscetta, al maxiprocesso. Benché Ayala sia stato uno dei principali protagonisti di questa svolta epocale, il suo tono è sempre dimesso, umile. Per la cronaca, il risultato si può compendiare in 2665 anni di condanne, da suddividere tra 379 colpevoli, ivi inclusi 19 pericolosi boss. Il racconto è accompagnato dalla proiezione di filmati. Le improbabili testimonianze di questi criminali sono spesso espresse solo in stretto dialetto siciliano. Come può l’ignoranza generare tanta paura? Eppure, a dispetto del titolo dello spettacolo, chi non sarebbe travolto dal terrore di fronte a tanta cieca crudeltà? La paura è un’energia circolare. Ognuno porta il suo pezzetto e percepisce perfettamente quello dell’altro. Una sommatoria di energie che, facendo leva sul comune sentimento, può diventare anche antidoto.

La terza parte dello spettacolo è un gigantesco punto di domanda circa il risultato di tanti sacrifici. La luce si trasforma in un cono di un viola intenso per dar maggior corpo alle parole dell’autore.

Se il progetto sembra essersi arenato a livello istituzionale, forse tramite la cultura, quindi il risveglio delle coscienze delle nuove generazioni, si potrà dare un nuovo senso alla morte di Falcone e Borsellino.

Sulla magnolia, prima di andare via, anche Ayala lascia il suo messaggio, quello di un cuore che continua a sperare contro ogni speranza.

CHI HA PAURA MUORE OGNI GIORNO – I miei anni con Falcone e Borsellino

Scritto da Giuseppe Ayala con la collaborazione di Ennio Speranza

Con Francesca Ceci

Musiche Roberto Colavalle e Matteo Cremolini

Luci Pietro Sperduti

Proiezioni Alessia Sambrini

Collaborazione al progetto Massimo Natale

Regia Gabriele Guidi

17 e 18 marzo, Teatro Quirino – Roma

 

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Webmaster - Redattore Cinema

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