INTERVISTA A CHIARA GUARDUCCI, autrice e regista dello spettacolo SUICIDE PROJECT

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Dopo aver assistito alla messa in scena dello spettacolo Suicide Project, al Teatro Furio Camillo di Roma, mi presento alla regista, Chiara Guarducci. Al termine di una breve conversazione, ci scambiamo i numeri di telefono e gli indirizzi di posta elettronica. Una sua richiesta mi sorprende: “Sei su Facebook?”. Ecco quindi nascere lo spunto per la mia prima domanda, nell’intervista che mi concede:

FANNY CERRI/ Facebook, nel tuo spettacolo, è molto presente: sembra essere messo in luce come un falso sistema di comunicazione e come un mezzo solo apparente di espressione delle proprie idee e preferenze. Però lo utilizzi tu stessa per metterti in contatto con gli altri. Pensi che esista la possibilità di un buon utilizzo di questo strumento o lo strumento stesso contiene in sé un baco di sistema?

CHIARA GUARDUCCI/ Suicide Project è una rassegna provocatoria di manie, mode e falsi miti di benessere, un’ironica sfilata dei manifesti e degli slogan di questa società contemporanea, strafatta di televisione, spot e social network. Facebook è solo una delle molteplici attività che inchiodano la giornata di Pinky al suo circuito demenzial-claustrofobico, ben rappresentato dall’idea del videogame. Quel che volevo passasse è la quantità parossistica, il fatto che il nostro vuoto è numeroso, trafficato e spesso camuffato a festa. Noi ci stordiamo e ci nascondiamo dietro mille cose. Per me la quantità è il sintomo principale di quest’era frenetica e invadente e Fb rispecchia la quantità. Basti pensare alla quantità di iscritti e alla gara al gran numero di contatti. A dimostare che esisti. È evidente che la sua diffusione risponde a un’identità fragile e al nostro esasperato bisogno di apparire, di mostrarsi, avendo l’illusione che questo significhi esprimersi. Mi ha sempre fatto molto ridere il Mi piace, di cui peraltro faccio largo uso. Io non sono immune, ho quasi tutte le dipendenze che affido a Pinky, spesso molto contraddittorie tra loro, come psicofarmaci e intrugli vitaminici. La vetrina di Fb è una delle maschere di cui abbiamo bisogno per un confronto sempre più artefatto, easy e protetto con gli altri e con la vita, eppure è anche uno strumento indispensabile per chi lavora nello spettacolo o per chi persegue un impegno sociale e una causa da sensibilizzare.

FANNY CERRI/ Pinky è un personaggio che poco ha di umano. Non è libero di scegliere, di agire, di sentire e di esprimere sentimenti autentici e individuali. E’ una sorta di automa, che forse contiene in sé solo il germe di una rivolta inattuabile. Hai immaginato questo personaggio come una realtà già insita nella società in cui viviamo, come una proiezione futura verosimile o piuttosto come un incubo?

CHIARA GUARDUCCI/ Hai afferrato perfettamente. Ma nessuno di noi è libero, siamo tutti un po’ pinky: lui, nella sua natura ‘meccanica’, agendo e ripetendo desideri di massa, svela quanto siamo automi, spesso obbedienti alla stupidità collettiva. E’ un personaggio che ho inventato per prenderci in giro, mostrando quanto siamo passivi e obbedienti. E questo ha in sé il germe di una rivolta. Pinky, per ribellarsi, ha solo il suicidio; si suicida per non diventare uno zombie, per uscire dal sistema.


Noi ridiamo, ma portiamo a casa un sapore amaro, perché è un incubo infilato sotto la pelle del presente. Riconosciamo quell’alienazione. Ma io ho voluto creare uno spettacolo che divertisse, così le spine passano meglio.

FANNY CERRI/ All’inizio dello spettacolo, Pinky inscena una danza gestuale che mima il suicidio. L’esordio, quindi, così come il titolo, preannuncia già chiaramente la fine. Pinky desidera davvero morire? Suicidarsi, per lui, è una scelta?

CHIARA GUARDUCCI/ È il suo sogno irrealizzabile. Essendo un fumetto, si rialza sempre. Non c’è soluzione per questo buffo e sciagurato personaggio: lui sceglie continuamente il suicidio; è l’unico modo che ha per rompere la sua quotidiana catena di montaggio. Tuttavia, è un suicidio ripetuto ad oltranza e seriale, come tutti gli altri gesti, dunque comicamente e tragicamente ingoiato nella catena stessa. E’ qui che vince la cifra paradossale e grottesca di questo spettacolo.

FANNY CERRI/ Quali problemi pone a un autore di teatro scrivere un testo che ha uno sviluppo drammatico volutamente molto flebile e che rappresenta un succedersi di azioni tutte simili le une alle altre? Hai temuto, in fase di scrittura, che il pubblico potesse non reggere a una ritmica e a una fraseologia così uniformi?

CHIARA GUARDUCCI/ Ho desiderato esasperare il pubblico, provocarlo, giocarci. La ripetizione crea effetti comici e paradossali. Pinky doveva essere un tormentone: è nel suo DNA. E’ così che mette in ridicolo tutti i tormentoni che ci propinano, sparando la sua pinkymania! Ma c’è uno spiazzamento verso il finale, una rottura con l’atmosfera e la struttura precedente. Quando Pinky mangia pillole come popcorn e la voce che lo ha accompagnato fino a quel momento si fa feroce, si apre la parte finale: una partitura di gesti rituali scandita dal silenzio, tanto che lo spettatore si trova precipitato in una zona profonda, in un sentimento che non aveva previsto.

FANNY CERRI/ E’ stato difficile dirigere un’attrice, impedendole di esprimere emozioni per tutta la durata dello spettacolo?

CHIARA GUARDUCCI/ Elisa è stata molto brava, ha colto subito l’appartenenza di questo personaggio a una dimensione fumettistica e dunque la necessità di essere privo di psicologismi ed emozioni. Addirittura privo di una sua voce. Abbiamo lavorato molto sul corpo. L’impassibilità del volto non è facile da ottenere, ci vuole una notevole concentrazione. La precisione di Elisa, la pulizia dei suoi movimenti è stata fondamentale. Mi piace quando l’attrice non esprime emozioni e lo spettatore le prova, come nella seconda parte dello spettacolo. Quando c’è la vestizione e l’apparecchiatura natalizia, quando le foto coincidono con una scarnificazione, con una nudità spaventosa, e gli oggetti di festa proiettano le loro ombre lugubri, dentro si spacca qualcosa. Questa è la magia del teatro.

FANNY CERRI/ Come si inserisce Suicide Project nella tua produzione artistica complessiva? E’ la scoperta di un linguaggio nuovo che continuerai a sviluppare o immagini che resti un punto di discontinuità? Era già presente, sotto qualche forma, nei tuoi lavori precedenti?

CHIARA GUARDUCCI/ Sicuramente era presente una tara nichilista e un forte senso del grottesco ma, in effetti, mai come in questo lavoro ho messo da parte la mia scrittura. Il testo è strettamente funzionale alla performance e quasi del tutto privo della carica poetica che contraddistingue il mio percorso. Devo ammettere che mi sono talmente divertita con questo progetto, il primo in cui ho una parte così attiva (voce off in diretta), che ho già in cantiere una sorta di sequel o comunque un ampliamento di nome SUICIDE FAMILY che, come si capisce dal titolo, sarà la parodia della famiglia ideale.

FANNY CERRI/ Nel tuo spettacolo, giochi con l’appiattimento dell’immagine e con la distanza emotiva fra l’attrice e il pubblico. La vera quarta parete, di cui tanto si dibatte in teatro, è in realtà lo schermo di un computer?

CHIARA GUARDUCCI/ Ho cercato di realizzare un fumetto vivente nel trip del suo circuito ossessivo. Ho desiderato che il pubblico lo sentisse chiuso in una gabbia immaginaria, con troppo spazio a disposizione. Non ho pensato alla quarta parete, ma non credo possa mai coincidere con lo schermo di un computer.

 

 

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