Emanuele Faina | La città di ferro

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scritto e diretto da Emanuele Faina
con Marco Bellizi, Giorgia Gramantieri, Roberta Romano, Sheida Jaafari, Sara Budoni, Manuela De Cave, yasmine El Ashkar, Marcella Scardala, Omar Mohamed Fawzy Galal, Andrea Giangiacomi, Alessandro Cagiola, Valerio De Cave, Luca Di Vincenzo, Gianluca Serra, Lorenzo Zavagnini, Filippo Rubbo, Marika Agamennone, Valerio Barberi, Giulia Pasqualini, Giulia D’Innocenti, David Moscati, Giovanni Pigliacelli
aiuto regia Cristiana Faina, Arianna Catalini, Tommaso Tini
collaboratori all’allestimento scenico Valentina Catalano, Alberto Romano, Elisabetta Tini, Eleonora Ubertini, Ilaria Widerk
direttore tecnico Andrea Catalini
 
4 febbraio 2016, Teatro Arvalia, Roma

 

La città di ferro, spettacolo scritto e diretto da Emanuele Faina, è un lavoro corale ambientato in uno spazio scenico adibito a prigione. La pesantezza delle catene che pendono sul palcoscenico, il loro arrendersi alla gravità che le rende visivamente simili alle sbarre che ingabbiano pensieri, azioni, desideri degli abitanti di quel luogo, sono un’evocazione efficace dell’ambiente, che si erge a simbolo di una prigionia che non solo rinchiude ma è capace di bloccare.

Popolato da uomini e donne che scontano i propri errori – quelli che li hanno resi reietti e nemici del vivere civile –, questo spazio è bagnato da una luce, che crea sospensione, nella quale ripetitivamente vengono proposti gli stessi schemi registici: l’andare in fila verso attività annunciate da un’inquietante e fastidiosa sirena, il sostare in attesa del nulla dei prigionieri, il tempo scandito dai passi e perso negli sguardi di questi uomini che subiscono non la pena, ma la spersonalizzazione dell’essere.

Portavoce esterno al momento dell’azione è Oscar Wilde, che ricorda quelle dinamiche assurde a cui è stato costretto durante la prigionia: entrando in scena rallenta il tempo, una luce violacea bagna le figure e i loro ambienti disegnando i tratti del ricordo vissuto. Ciò che racconta è la conoscenza di un condannato a morte, esperienza significativa che lo ha ispirato nella scrittura de La ballata del carcere di Reading del 1898. Questo componimento poetico è uno struggente grido di dolore, una riflessione sul mondo del carcere che non si pone come invettiva, ma che porta in sé le ferite dell’animo umano costretto al disumano.

Il lavoro si regge sui ritmi del gruppo corale di carcerati, sul dolore percepibile nei silenzi angosciosi di un’altra notte passata fra spesse mura di pietra, fra i pensieri cacofonici che non fanno dormire e che rendono la mente un inferno peggiore. Le parole che sono portati a dire sono riflessioni – forse poco originali – su quel mondo nel quale sono costretti a frenare il proprio desiderio di vita, nell’angoscia del sentire che al di fuori, oltre quelle sbarre, il tempo è libero di fluttuare, il vento continua a soffiare, le opportunità continuano a sbocciare. Ciò che li rapisce dal proprio dolore personale, una sorta di palliativo ma anche di musa ispiratrice per riflessioni sull’ingiustizia della pena di morte, è la presenza di quel prigioniero condannato all’esecuzione capitale, che come un fantasma, una presenza scura e silente, infesta i loro pensieri, probabilmente anche quelli di un giovane Oscar Wilde.

Fra quelle catene che non sono inchiodate a terra, che potrebbero fluttuare ad un alito di vento, solo se a questo fosse dato il permesso di entrare fra i corridoi bui e umidi, viene a mancare però allo spettatore un piccolo cenno su questo rapporto, che non si tesse se non con fugaci sguardi. Forse una mancanza del testo voluta, ma decisamente sentita. Troppa invece l’attenzione prestata alle musiche, inadatte e incapaci di creare l’atmosfera, piuttosto a far perdere il filo della concentrazione, abile solo a creare uno scalino stridente a sfavore del lavoro degli attori.

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Autore

Ludovica Avetrani

attrice, danzatrice, curiosa. caporedattrice delle sezioni di teatro e danza. odia le maiuscole.

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