Beach House. Raggianti @ Piper

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foto: Enea Tomei

«Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi, navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire».

Dopo BLOOM, quarto album del duo dream-pop di Baltimora, uscito nel 2012, i Beach House atterrano in Italia per il live omonimo.

Beach House

Piper, Roma 10 marzo 2013

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Più di duemila persone in coda, un momento dopo la pioggia. Piper stracolmo, occupato. Una scena fatta di corde sottili: cattedrale gotica per questa nuova musica sacra. Bach che passeggia su tappeti di synth melanconici (ebbene sì, melancholia). Se Papa Francesco ha in animo di riempire veramente le chiese, questa è la musica che vorremmo ascoltarvi, oggi.

Si parte per gli spazi siderali. La navicella è condotta da Victoria Legrand, voce e tastiere, lady algida, Alex Scally, chitarra slide, soffre volumi leggermente sotto la norma e Daniel Franz alla batteria, munito di bacchette per timpani, produce suoni assoluti e massimali che, tradotti in immagine, evocano le percussioni del femore dell’ominide di 2001: Odissea nello spazio. Prendono il largo sulle note di Wild. Curvi sugli strumenti, evocativi: una danza di corde, pelli, tasti che ammutolisce il pubblico e riempie la sala con una corporalità del suono piagata e immediatamente narrativa. Other people, Norway: la chitarra lacera vene disponibili al sacrificio. La batteria è un cuore sotterraneo e passionale e la voce è quella della maga Circe e della divina Calipso, unite da un unico amore: Master of none.

La scena luminosa alle loro spalle irrompe diffondendo pulviscolo lunare, raggi laser, buchi neri: spazio profondo dove perdere la ragione tra le braccia della signora degli universi e delle stelle. La Via Lattea è una lontana rimembranza e Lazuli ne accompagna delicatamente il ricordo attraverso dita che solleticano corde, evocano carillon infantili e incedono palpitanti sulle pelli, disegnando una cerimonia di suoni dell’oltre spazio. Equal mind, Silver soul, The hours, Zebra: pulsazioni graffiate e cavalcate, crescendo continui, acuti laceranti, sui finali soprattutto c’è molta sinfonia rock. Tirano giù dai cieli e richiamano dal sottosuolo schiere di bambini persi nel tempo: dolori troppo grandi, che la poesia, dimensione spazio-temporale infinita, rende possibile affrontare. Dopo Wishes, cha vanta il video, grottesco e surrele, diretto da Eric Wareheim e interpretato dal lynchiano Ray Wise, uscito pochi giorni fa, si apre un varco spazio-temporale ed entra Heart of chambre, «old song» il cui passo, oltre a far apprezzare le doti vocali di Victoria, ricorda l’icona glam-rock vagamente country, molto sballata, comunque adorabile, dei primi 70’ di Lou Reed e David Bowie. Take care, Myth, Real love, 10 mile stereo: passionali passioni di poesia sonora, ottime le percussioni, il supporto digitale è una lontana chimera. Una costellazione di pathos, un’enciclopedia del romantico. Con Irene constatiamo la materializzazione di una diva e certifichiamo l’esistenza del raggio tele trasportatore che ci riporta Patty Pravo.

Non si concedono neanche una sbavatura: minuziosamente curati nei testi e categorici nel loro essere cosmici e dissonantemente precisi. Riff metal finale alla chitarra e tutti stesi. Giù, sulla terra.

Tornare dopo che si è viaggiato tra le costellazioni di Andromeda e i cieli di Antares è un duro colpo. Usciamo, sembra che piova di nuovo. Sì, piovono sottilissimi fili di lacrime. Grazie per averci portato con voi.

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Redazione

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