Speciale TdV9 | gruppo nanou, Baby Doe

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ph Carolina Farina  fattiditeatro.it

ph Carolina Farina fattiditeatro.it

 
di Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci
con Sissj Bassani, Anna Basti, Alessia Berardi, Marco Maretti, Anna Marocco
suono Roberto Rettura
scene e light design Giovanni Marocco
video Claudio Martinez
 
12 novembre 2015, Fondazione Volume, Rassegna Teatri di vetro 9, Roma

 

 

Nello spazio teatrale ricerco continuamente questa dimensione inesausta: lo “sbaglio” di un “racconto” che non può farsi storia perché non ne ha più le possibilità.

Marco Valerio D’Amico (gruppo nanou)

In uno spazio multi-prospettico e inusuale come una delle sale di esposizione della Fondazione Volume, sono allestiti tre ambienti attraverso i quali si muovono i performers di Baby Doe, dal volto semi-nascosto, con maschere e occhiali come per immergersi sott’acqua o in una grotta sotterranea. All’interno del macro-spazio si dividono una sorta di vasca, una serie di plastici geometrici, e uno schermo  dove è proiettato un cortometraggio con bambino che si muove in un ambiente analogo. La struttura dell’opera di gruppo nanou è dunque molteplice, seguendo la configurazione di dispositivo, in questo caso un dispositivo performativo/visuale.

Tale configurazione è l’assonanza, il riverbero, di un dato immediato (l’azione del corpo) e uno mediato (il video, la fotografia). I due piani vanno assieme e coincidono, creando una dimensione evenemenziale dove l’alternanza di differenza e ripetizione è la radice stessa dell’opera.

Le sequenze di danza e di movimento infatti si ripetono in un circolo vizioso che ne incontra altri, come lanciare un sasso nell’acqua e vedere ripetersi la formazione di piccoli e grandi cerchi. Il video in loop (di Claudio Martinez) è un mondo parallelo, opera nell’opera che funziona come interlocutore muto, portale che conduce lo spettatore (in questo caso l’astante) in un mondo di fatto assente eppure liquido immateriale che si inserisce nelle falde del presente.

ph Carolina Farina -fattiditeatro.it

ph Carolina Farina -fattiditeatro.it

Come scriveva Marco Valerio D’Amico, fondatore del gruppo assieme a Rhuena Bracci, in Realtà apolidi e bastarde: «Il suono si fa corpo, la luce si fa paesaggio, la scena si fa coreografia e il corpo fatto tempo non più dentro se stesso e al centro della scena, ma spostato, di poco, per aprire un varco di accesso, non si impone ma si espone alla visioni»[1]. L’impianto coreutico dunque risiede in un’alternanza, un’apertura allo sguardo e al corpo stesso dello spettatore/astante, coinvolto in un gioco visionario, egli stesso attore dell’enigma scenico, parte fondante del dispositivo.

Il concetto che attiene al termine doe, a questo liquido e oscuro compiersi di movenze e atti, è l’anonimia, o nullità (per approfondire leggi l’intervista) . Doe è un soggetto de-soggettivizzato, qualcosa più vicino a un’ombra che un uomo; un ente di cui si sono persi i riferimenti biografici e di cui rimane unicamente la biologia. Un corpo che è una traccia e allo stesso tempo una curiosa faccenda, su cui impiantare una non-storia che abbia i caratteri di avventura, di erotismo. Come in un romanzo di Robbe-Grillet, dove sono figure e non personaggi ad agire, in un labirinto di stanze e corridoi, il dettaglio di un braccio appoggiato a una poltrona e una sagoma che guarda oltre la finestra.

Con occhiali e copricapi inattuali, genere steam punk, i performers si muovono da una postazione all’altra, illuminati di volta in volta da lastre luminose, che creano un contrasto di bianco e nero, luce e nascondimento. Gli oggetti plastici (vediamo bottiglie e vasi) sono composti e ri-posizionati con una gestualità quasi sacrale, all’interno di un design che si basa sulle geometrie, e l’accostamento della carne alla freddezza della proporzione.

Un fascino mistico ed erotico, emanante dalle posture fisse del corpo e dalla co-abitazione dell’umano e della materia, rimandano a esperimenti di architetture sceniche composte da apparati visuali e coreografie stilizzate. Qui però il senso non è spettacolare, emerso, bensì sommerso, quasi ancestrale; come se l’infanzia a cui richiama il titolo non fosse banalmente solo un’età della vita, ma del genere umano. L’occhio vergine che vede per la prima volta, sente per la prima volta l’eco dell’origine della natura nel numero, proporzione aurea della disposizione della materia nello spazio; il fenomeno spogliato della sua sovrastruttura, guardato nella sua originaria e basilare configurazione di materia-forma-oblio. Baby Doe è una sintesi atipica di differenza e ripetizione, loop performativo in cui il corpo risulta parte essenziale di un paesaggio fantasmatico, legato e connesso al concetto di essere-tutto-e-nulla, a-nomìa artistica intesa come sottrazione a una legge categorizzante e gerarchica, scegliendo strade non ancora solcate per restituire una gemmazione del senso e dell’estetica.

 

ph Carolina Farina - fattiditeatro.it

ph Carolina Farina – fattiditeatro.it

 

[1] M. V. D’Amico, Realtà apolidi e bastarde, in «alfabeta2», numero 30, giugno 2013.

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Redazione

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