Pussy Riot: a punk prayer

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Proiettato al Cinema Aquila durante il mese di Dicembre, il documentario di Mike Lerne Maxim Pozdorovkin ci fa entrare nelle dinamiche del processo che, nel 2012, hanno portato alla condanna delle Pussy Riot.

Pussy Riot: A punk prayer, di M. Lerne e M. Pozdorovkin, Russia-Gran Bretagna 2013, 88′

Produzione: Mike Lerne, Max Pozdorovkin, Havana Marking

Musiche: Simon Russell

Distribuzione: HBO Documentary Films,

Montaggio: Simon Barker, Esteban Uyarra

«In Russia regna l’illegalità, una persona che viene processata deve pentirsi ed ammettere il proprio crimine, piangere e umiliarsi, reprimere la propria individualità per permettere allo stato di farla a pezzi. Niente è cambiato dai tempi dell’Unione Sovietica.»

Così dice l’Avvocato delle Pussy Riot, durante l’arringa finale, prima della sentenza di condanna, nell’Agosto del 2012.

La vicenda delle attiviste rock apre il sipario sulla condizione sociale russa, con particolare riguardo alla parte sdegnata della popolazione. Diversamente non potrebbe essere, considerando che il sostegno alle Pussy Riot, dal momento del loro arresto, si è espanso a macchia d’olio.

Delle tre arrestate sappiamo che sono giovani, che si esibivano con passamontagna colorati e vestitini sgargianti e che, nel Febbraio del 2012, hanno invaso una funzione religiosa nella Cattedrale ortodossa più famosa di Mosca, salendo sull’altare ed invocando una preghiera femminista contro Putin ed il sistema corrotto del loro paese. Ma nelle vicende con protagonisti eroi a coscienza civile bollente c’è sempre qualcosa che le TV non dicono, di cui occorre informarsi individualmente, perché la cognizione di causa va guadagnata, non assorbita. Nel caso di Masha, Nadia e Katia, il lavoro di Mike Lerne e Maxim Pozdorovkin si focalizza sulla caccia alle streghe inscenata dal governo, nascostosi dietro la grottesca farsa della difesa al credo religioso. Gli algidi volti russi stanati dalle case popolari trasudano una superstizione così imbarazzante da far immaginare l’eventualità di un rogo pubblico, qualora le leggi lo consentissero.

Le strade si trasformano in setta, mentre un unico vociare difende la rigida cerniera lampo tra Stato e Chiesa, in un clima dove attecchisce facilmente un regime politico che striscia. Sono rigidi anche i volti delle Pussy Riot, ma non di rabbia, bensì di convinzione; la paura di finire in un carcere della Siberia proprio non si evince dalle loro espressioni fiere. Mentre fuori da un tribunale la fazione dei sostenitori si scontra con quella dei colpevolisti, le tre ragazze esprimono una quieta perplessità che, pian piano, sgretola tesi ed accuse: non siamo davanti a tre streghe, ma a ragazze che hanno proprietà di linguaggio, punti di vista, lauree in tasca, famiglie dietro le spalle. Il documentario di Lerne e Pozdorovkin mostra il fallimento del sistema, amplificato da una cassa di risonanza che arriva fino agli Stati Uniti, dove Madonna balla in concerto col nome delle Pussy Riot scritto addosso.

Si impongono gli slogan di supporto, mentre un attimo prima della sentenza, le tre imputate leggono le loro ultime dichiarazioni.

«Nessuno potrà togliermi la libertà più intima, vivrà in tutti coloro che non sono indifferenti, e che si riconoscono in questo processo.»

In manette le tre giovani donne escono dall’aula, mentre ancora volteggiano in aria le parole di Nadia: «toglietevi i vestiti, e assaporate la libertà con noi».

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Redazione

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