S. Riso | Più buio di mezzanotte

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Più buio di mezzanotte, di S. Riso, Ita 2014, 94′

Produzione IdeaCinema, Rai Cinema, con il contributo del MiBACT, con il sostegno di Regione Sicilia
 
Distribuzione ISTITUTO LUCE CINECITTÀ
 
 nelle sale cinematografiche dal 15 maggio e al Cinema Aquila
 
 

«L’amore ti fotte»: questo il grido che sporca i muri del quartiere a luci rosse dell’estrema periferia di Catania, rifugio di una figura androgina, dai sospiri silenziosi, dalle lentiggini timide, che nella sua innocenza inizialmente infastidisce quel contesto pulsante sesso, droga e violenza.

Davide Cordova, quattordicenne siciliano di femminea mascolinità, decide di scappare di casa, dove è costretto a reprimere la sua sessualità: c’è qualcosa in lui che lo fa assomigliare ad una ragazza e il castigo per questa dannata purezza è la coercizione del padre omofobo che lo obbliga a tagliare i capelli, irrigidirli nel gel, indossare rigorosamente jeans e polo. Il suo locus amoenus non è di certo il focolare domestico: sottoposto a cure ormonali, picchiato, deriso, è protetto solo dalla madre non vedente, capace di percepire ogni lacrima del figlio e di vederlo per ciò che è nella sua essenza. Villa Bellini, il giardino degli emarginati dalla società catanese, l’Eden di omosessuali, drag queen, trans e prostitute è la vera casa di Davide. Così scompigliati i capelli rossi, il selfmade man, consapevole della propria essenza, comincia a riappropriarsi di se stesso: scopre il mondo delle feste gay, canta con la sua bellissima voce, mette il rossetto, viene pestato a sangue con i suoi amici, ha il suo primo rapporto sessuale, ricambia sessualmente il protettore, guarda la bara, inavvicinabile, del suo migliore amico, La Rettore, da cui è puramente amato. Piange, ruba, lotta per i suoi diritti e per un riconoscimento nella sfera sociale.

cordovadavide

Impedire di essere è proibire ad un’identità realizzata di essere felice e così, quando il passato da cui era fuggito ripiomba alle spalle di Davide, si manifesta un radicale rovesciamento: l’amore che fotte non è quello omosessuale, ma è quello familiare. Il film è costruito su forti e rigidi piani sequenza dal tratto documentaristico: l’utilizzo fermo della telecamera fissa sul viso androgino, ma estremamente espressivo del protagonista, restituisce, in maniera speculare, ogni sguardo e giudizio dell’alterità che lo circonda, siano esse la famiglia o la società civile omofoba. Nell’uso marcato dei primi piani il regista regala un prodotto che non vuole essere un film queer sull’omosessualità, ma sull’affermazione d’identità di un adolescente, scevra di qualsiasi caratterizzazione morale e cliché socio-politico. La sceneggiatura racconta elementi psicologici sulla conflittualità, sul travaglio introspettivo, sulla vita divertente, felice, libera ma anche angosciata, impaurita e inquieta di un quattordicenne, solo, nell’affermazione della sua sessualità.

Il suono irrompe quando l’adolescente incontra la Catania degli emarginati, dove può urlare, può baciare e fare sesso: può finalmente riconoscersi ed essere riconosciuto. Il pathos del silenzio diventa una prigione coercitiva: è il suono a mettere in atto il proprio essere, è il frastuono, anche dell’eros, l’autentica quiete appagante per chi è costretto alla proibizione. Ma quando il silenzio è quello della morte e non dell’attesa, allora il suono stesso diventa struggente: l’urlo non è alla vita, ma alla rassegnata consapevolezza che “Più buio di mezzanotte” esiste solo il nulla.

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Autore

Valentina Cucchiaroni

Caporedattrice della sezione Arte di Nucleo Artzine, appassionata della scena artistica contemporanea, ha studiato filosofia teoretica alla Sapienza di Roma.

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