Pellicole in maschera lagunare: IL CASANOVA

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Regia: Federico Fellini

Soggetto: Storie della mia vita di Giacomo Casanova

Sceneggiatura: Bernardino Zapponi, Federico Fellini

Direttore della fotografia: Giuseppe Rotunno

Scenografia: Danilo Donati, Federico Fellini

Costumi: Danilo Donati

Montaggio: Ruggero Mastroianni

Musiche: Nino Rota

Cast: Donald Sutherland, Tina Aumont, Daniel Emilfork, Olimpia Carlisi, Margareth Clementi

Produzione: Alberto Grimaldi

Durata: 148 min.

Amatore? Amante? Amato? Il Casanova di Fellini è prima di tutto la storia di un uomo, avvolta in una trama a tratti illusoria e allo stesso tempo ironica che racconta le vicende di questo nobiluomo ridotto alla sua dimensione puramente fisica ed erotica.

Forse per via di una sua interiore insoddisfazione, forse perché dentro di sé Casanova sa che tutto questo non è altro che un lento declino verso la morte, egli compie l’atto dell’amore nel modo più schematico e freddo che si possa fare. Sembra ne tragga piacere, almeno all’inizio, ma è un automatismo evidenziato dal suo “orologio” dorato e musicale che scandisce ogni movimento. Giacomo Casanova attraversa la sua esistenza da vero atleta del sesso. Accompagnato da questa sua sorta di carillon a forma di gufo, si cimenta in ogni tipo di arte amatoria come un ballerino, muovendosi a canone con la sua partner del momento.

Federico Fellini lo fa roteare attorno alle donne, o alle bambole più diverse: una marchesa e una umile donna pallida e cagionevole sono solo due delle tipologie femminili che cadranno nella rete conturbante di Casanova. Agisce per piacere o per dovere? La differenza è estremamente sottile e anche il regista stesso lascia il dubbio creando così un vero e proprio gorgo da cui nemmeno il protagonista riesce ad uscire in modo sano. I presagi di morte e di tragedia corrono al pari dello scorrere dei minuti, come un’ombra cupa. Nonostante ciò tutto il film è un continuo tripudio di colori, feste e musiche pompose. Troppo forse, scivolando nella macchietta di un’epoca dei lumi troppo anche per se stessa; i costumi, dal canto loro – valsero l’Oscar a Danilo Donati – raccontano perfettamente il momento in cui si è ambientata la storia, ma anche la personalità di Casanova: eccentrico e turbato.

Il film è un viaggio del resto: si va alla scoperta del percorso che porta il grande amatore a trasformarsi in un depresso ed insoddisfatto atleta del sesso. Qui la figura della donna diventa metafora del declino preparando Casanova alla morte, forse più spirituale che fisica, tramite l’incontro con la bambola meccanica. È l’apice dell’automatismo, della meccanicità di un atto che non è più realmente d’amore o sentito, ma solo esercizio fisico fine a se stesso. Nonostante ciò Casanova ama questa bambola e sembra innamorarsene al punto tale da ripensare a lei come all’amore migliore della sua vita… o carriera che dir si voglia.

Lo scorrere delle vicende, come in molti film di Fellini, è a blocchi ed è palesemente fittizio il meccanismo (basti pensare al mare di plastica in una delle prime scene). Si crea così un contrasto abbastanza evidente tra i costumi e gli sfondi che contribuiscono, forse, a creare l’unicità di questo film (va detto e ricordato che tutto il film è stato girato all’interno del teatro numero 5 di Cinecittà). Il fatto di trovarsi davanti a un film del grande Fellini deve rendere preparati anche a questo: bisogna lasciarsi spiazzare e farsi trascinare nelle atmosfere cangianti al pari dei sentimenti di Casanova. Dallo spiazzamento all’affascinante trasporto iniziale, passando per la solitudine ed infine la pena: Fellini ci accompagna e ci guida in quello che molti hanno visto come un capolavoro di commistione tra mondo onirico, a tratti inquietante, e realtà.

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