Miele

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Miele rappresenta la prima prova da regista di Valeria Golino, impegnata a sviluppare un tema “scomodo” e nuovo nella cinematografia italiana: il suicidio assistito.

Miele, di Valeria Golino, Ita 2013, 96’

in uscita nelle sale cinematografiche il 1 maggio 2013

Soggetto e sceneggiatura: Francesca Marciano, Valeria Golino, Valia Santella

Aiuto regista: Davide Bertoni

Fotografia: Gergely Poharnok

Montaggio: Giogio’ Franchini

Scenografia: Paolo Bonfini

Costumi: Maria Rita Barbera

Produttori: Riccardo Scamarcio, Viola Prestieri

Produzione: Buena Onda con Rai Cinema in co-produzione con Les Films de Tournelles e Citè Films.

Distribuzione: BIM

Interpreti: Jasmine Trinca (Irene), Carlo Cecchi (ing. Grimaldi), Libero De Rienzo (Rocco), Vinicio Marchioni (Stefano), Iaia Forte (Clelia)

Al cinema Quattro Fontane si è tenuta, lo scorso 29 aprile, la presentazione del film Miele. Dietro la macchina da presa c’è Valeria Golino, attrice affermata nel mondo cinematografico italiano e internazionale. Un primo risultato decisamente efficace per un tema non semplice come quello del suicidio assistito, tratto dal romanzo A nome tuo di Mauro Covacich.

Irene è una ragazza che svolge un lavoro particolare e molto segreto: aiuta le persone malate a morire con un metodo infallibile che prevede l’uso di potenti barbiturici. Il suo “nome in codice” è Miele, dolce come la dolcezza della soluzione finale che offre alle persone che soffrono. Eppure Irene/Miele è una figura molto diversa dallo stereotipo della crocerossina, ed è un personaggio abbastanza inedito nel panorama sia cinematografico che letterario italiano. Mascolina, dura, poco incline ai rapporti umani, svolge il suo lavoro ad una sola condizione: esso è riservato solo alle persone che si trovano ad uno stadio terminale della malattia, le cui sofferenze intaccano la loro dignità di essere umano.

L’incontro con un cliente, l’ingegner Grimaldi, mette però in discussione le sue certezze e le sue convinzioni: settant’anni, in salute, richiede i suoi servizi solo perché ritiene di aver vissuto abbastanza. O forse perché è arrivato ad un rifiuto della vita, ad una resa di fronte all’imbecillità contemporanea – come dice lui stesso – e ad uno scollamento dalla realtà: affacciato alla finestra della casa di Irene sostiene che davanti a lui c’è troppo mare, troppo sole. Grimaldi costituisce una variabile che altera la solitudine di Irene, e il loro rapporto di conoscenza reciproca li conduce verso un dialogo serrato e verso una trama di ambiguità affettive.

Evitando di soffermarsi sulle implicazione etiche che la materia trattata inevitabilmente comporta, il film va considerato soprattutto in quanto rappresentazione di una più ampia dialettica vita-morte che viene sviluppata in molteplici modi.  Irene corre, nuota, fa l’amore come se volesse afferrare la vita dopo aver assistito a tanta morte; gli ampi e vitali paesaggi di Roma e del Messico – due tra le varie location del film – si contrappongono a lunghi primissimi piani che rendono invece l’immobilità della morte.

La morte, la grande protagonista della storia, è sempre avvertita e sempre presente, ma mai mostrata apertamente, poiché i pazienti vengono lasciati giusto un attimo prima che chiudano gli occhi per sempre. Il tutto è rappresentato in modo spesso crudo, e il film risulta essere alla fine «libero e formale» – come lo ha definito la regista stessa –, con una rinuncia ad un’estetizzazione della morte a tutti i costi a favore di una resa più fedele dell’immagine e, dunque, del soggetto scelto.

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