DUNK ITALIAN BAND
Un supergruppo è un pendolo che oscilla tra crisi e rinascita.
Un momento di sospensione, un giro in bicicletta, un intervallo tra due atti di un’opera. È il giusto tempo, la cesura ideale per ritirarsi, lasciarsi andare e sperimentare. Chris Cornell per primo vi avrebbe risposto in questo modo a proposito dei Temple of the Dog e lo stesso Josh Homme, nonostante il Bataclan, continua a pensare che gli Eagles of Death Metal siano la sua villa negli Hamptons, una tenuta in campagna, la casa sull’albero.
Il supergruppo
è l’appartamento da scapolo che non si affitta mai per poterci tornare ogni volta che litighi con tua moglie. Quando il gioco si fa duro con i White Stripes, Jack White corre dai Raconteurs. Ci si diverte e chi partecipa alla festa porta la sua storia, la musica che ascolta in quel momento, intuizioni messe da parte per poi gettarsi nel vuoto: vediamo cosa succede.
Niente di tutto questo accade con Dunk,
album d’esordio dell’omonima band capitanata dai fratelli Giuradei a cui si aggiungono rispettivamente Carmelo Pipitone, chitarra dei Marta sui Tubi e Luca Ferrari, batterista dei Verdena. Cantautorato tenue, svasate elettriche con eccentricità da progressive italiano e pestate tribali sulla grancassa.
Tratti distintivi delle loro vite musicali precedenti
che ritroviamo nella nuova produzione, senza coesione e identità: manca la creazione. I brani veloci, come Avevo voglia oppure Amore un’altra, che hanno la pretesa di una folle corsa si ritrovano incastrati nella monotonia della composizione, in arrangiamenti che rivendicano il cartello dell’indiependenza, in liriche scarne (Mila, su tutte) che vorrebbero avere l’urgenza dell’estemporaneità e hanno la consistenza del vuoto.
È una bicicletta con la trasmissione bloccata,
resti esattamente nel punto di partenza nonostante lo sforzo della pedalata. Le ballate, poi, ammiccano al cantautorato di scuola ma inesorabilmente tracciano la distanza con capolavori come Io tu noi tutti di Battisti.
Dunk
è bloccato nell’ambizione di far bene, nonostante urli ai quattro venti riscatto e movimento. Un album sospeso come negli innumerevoli vorreimanonposso dei suoi testi. E non è un caso che Ettore Giuradei continui a cantare all’infinito «È altro la vita che cerco». Proprio così, anche noi.
– di Bianca Fenizia