Patrick Faigenbaum. FOTOGRAFIA edizione XII

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© Patrick Faigenbaum
Im Park Oslebshausen, Brêm

Courtesy of the artist

Reportage Polaroid digitale di Enea Tomei

La mostra che l’Accademia di Francia presenta nelle sale di Villa Medici, è stata curata dal critico Jean-Francois Chevrier e dall’artista Jeff Wall. Fino al 19 Gennaio, sono esposte settanta opere di diverse dimensioni del fotografo francese, vincitore del prestigioso Henri Cartier-Bresson nel giugno scorso.

Dove: Villa Medici, Roma

Quando: 4 Ottobre 2013 – 19 Gennaio 2014

Leggi: Patrick Faigenbaum

 

 

Gli inizi artistici di Faigenbaum si collocano all’interno della pittura. Predilige la tecnica ritrattistica in bianco e nero, spostandosi successivamente verso soggetti reali, urbani e rurali, che comincia a fotografare a colori. Continua l’uso del bianco e nero, in quei contesti in cui ha bisogno dell’astrattezza per introdurre «con discrezione l’immagine fantastica nella realtà possibile», mentre il colore, presente nei suoi lavori a partire dalla paesaggistica metropolitana, «rivela aspetti fondamentali dell’identità di un Paese». Sono foto che sembrano non avere un fuoco chiaro, nitido. Hanno diversi fuochi, possiedono un dinamismo narrativo. Il fuoco, spesso, è il punto di vista di uno dei personaggi ritratti, colti nell’atto di osservare o vivere la vita: il maglione di un uomo visto da sua figlia, la racchetta da ping pong su cui rimbalza la pallina o la culla in cui dorme un neonato. Porzioni di reale che raccontano la società e gli individui che vi partecipano. Ritratti di famiglia, spesso con uno o due soli eredi e attorno nulla più che austerità. Braccia e mani incrociate o sovrapposte, volti assenti, resistenti. Ritratti della madre a letto, candelabri, abiti consunti, muri scrostati, solitudine e dignità, della vecchiaia.

L’allestimento, con gli accostamenti tra volti fotografati e volti scolpiti, l’alternanza casuale del colore e del bianco e nero, i focus sulle nature morte e sui ritratti delle famiglie nobili, sostiene una visione che non è affatto didascalico-cronologica ma piuttosto un percorso emotivo, intimo e sensuale. Storie di adolescenza e giovinezza spaesate. Continui rimandi tra dentro e fuori di luoghi e persone. Puoi immaginare i loro pensieri, ascoltare le loro voci, respirare i loro stessi odori, percorrere le medesime strade, indossare gli stessi abiti. La luce, che raramente è a pieno quadro, si sofferma sugli stati d’animo o sulle materie più narrative: mani, schiene, muri o sfondi bokeh; una pianta, dei capelli, un barattolo di ketchup. Solo l’effetto delle dimensioni dei quadri e delle ambientazioni più aperte e meno claustrofobiche fa sembrare i soggetti più radiosi. Grigi cinerei, funebri. Colori autunnali nitidi, sofferenti, verdi, marroni, gialli, rossi e viola, purulenti; le castagne, i melograni, i limoni, sono tutti appena tolti alla vita.

La mostra (a parer di chi scrive) accenna vagamente a queste ineluttabili presenze di morte, alle sue infinite varianti, alla sua infallibile guerra contro il respiro.

Ne usciamo impauriti, agghiacciati, sconfitti.

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Redazione

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