Napoli Teatro Festival | Anagoor| Virgilio Brucia

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 con Marco Menegoni, Gayanée Movsisyan, Massimiliano Briarava, Moreno Callegari, Marta Kolega, Gloria Lindeman, Paola Dallan, Monica Tonietto, Artemio Tosello, Emanuela Guizzon
e con la partecipazione straordinaria di marco cavalcoli
video concept Simone Derai, Moreno Callegari, Giulio Favotto
drammaturgia Simone Derai, Patrizia Vercesi
regia Simone Derai
costumi Serena Bussolaro, Simone Derai
scene Simone Derai, Luisa Fabris, Guerrino Perosin
musiche Mauro Martinuz
produzione Anagoor 2014
in coproduzione con Festival Delle Colline Torinesi, Centrale Fies, Operaestate Festival Veneto, University Of Zagreb-Student Centre In Zagreb-Culture Of Change
 
26 Giugno, Castel Sant’Elmo, Napoli Teatro Festival 2015
 

 

A che poeti in tempo indigente?

Hölderlin

Un canto si leva nella sua purezza, distillato come un’essenza, da proteggere contro la macchina che divora ciecamente tutto ciò che produce.  È la voce del poeta, l’enunciazione della sua opera, che non è subordinata ad alcuna imposizione e non soggiace ad alcun obbligo di compiacimento. Pur rimanendo solo nel suo poetare, egli ha la necessità che il racconto risuoni e si faccia epòs, andando a ravvivare una riflessione, suggerendo a chi lo ode di spostare lo sguardo altrove, uscendo dalla coercizione della cultura di massa, dove l’immagine è la prima delle prostitute nel rappresentare una bellezza finta e un gusto posticcio.

Questi elementi convergono in Virgilio Brucia, creazione del collettivo ANAGOOR del 2014 articolata in sette sequenze che uniscono documentario, racconto video, perfomance canora, mash-up sonoro, pur rimanendo in un paradigma drammaturgico classico dove si rileva la presenza di un testo, in questo caso un ipertesto composto da brani tratti dalle opere di autori tra cui Danilo Kiš (Homo poeticus), Hermann Broch (La morte di Virgilio), Alessandro Barchiesi e, come dal titolo, Virgilio, in particolare il libro sesto e secondo del poema croce e delizia dei liceali, ovvero L’Eneide.

Se risulta assente un’univocità di senso e di autorialità, in quanto l’opera si iscrive nella tradizione dell’autore collettivo e dell’ipertesto (come il collettivo Wu Ming in letteratura e Studio Azzurro nelle arti performative), è altrettanto assente un soggetto finzionale definito; infatti la performance è partecipata da numerose presenze (ne contiamo circa diciotto) che formano un gruppo che assiste assieme allo spettatore all’evento scenico e che sale sul palco portando con sé degli oggetti, come una processione, per unirsi alla celebrazione funebre della morte dell’essere-poeta. Da questo gruppo si distacca sin dal principio un interprete, Marco Menegoni, il quale di fatto impersona il poeta, o meglio, l’homo poeticus, presenza che si contrappone concettualmente alle sequenze che vediamo proiettate in video, in particolare nelle sequenze “Proemio: Le sofferenze dell’impero” e “Libro VI – discesa nel regno dei morti“. Nella prima si assiste a un cortometraggio che narra di un professore di italianistica a Cambridge – interpretato da Marco Cavalcoli del collettivo Fanny & Alexander – il quale si cimenta nella divulgazione dell’opera di Virgilio secondo un punto di vista non occidentale, inserendo l’Eneide nella tradizione epica del racconto di una grande migrazione, avvenuta durante il passaggio traumatico da un’epoca storica all’altra, di cui il cantore narra perché se “Il fato ha un costo che si misura in vite”, al poeta “interessa il prezzo” di tale sacrificio. Nel video di “Discesa nel regno dei morti“, alla cui proiezione assiste il gruppo di performers posto di spalle rispetto al pubblico, sono invece mostrate scene da mattatoio di animali al macello, ovvero la strage che avviene sotto gli occhi di tutti negli allevamenti industriali.

Cosa resta del canto? L’atto di resistenza è nel rispetto del testo in quanto operato umano, da valorizzare attraverso la memoria; una drammaturgia ermeneutica che attraverso la regia di Simone Derai si conclude con la scelta di far recitare integralmente a Menegoni il secondo libro dell’Eneide al cospetto della corte di Cesare che assiste con una maschera d’oro sul viso, indice della sua estraneità, della sua totale assenza di empatia nei riguardi della tragedia narrata dal poeta-testimone. Chi è quest'”uomo contorto”, questo individuo che non segue i profeti e i principi, che “segue il carro e lascia dietro le genti”, guardandosi “dalla terrificante coerenza”, il quale “non discute con gli imbecilli” e “quando tutto il mondo fa festa non v’è ragione che ne prenda parte”? È il poeta, Virgilio o altri per lui – di cui il testo spettacolare è una rapsodia malinconica e di una potenza anarchica delicata e letale – che brucia su una pira funebre; compito dell’evento teatrale risulta dunque quello di attuare un Rinascimento, una restaurazione, se si ha il coraggio di proteggere il singolo contro l’indifferenza del prodotto di consumo e dell’automatismo della macchina.

Come gli altri testi utilizzati nel montaggio drammaturgico, l’Eneide è enunciata in lingua originale, ossia in latino, la lingua dell’impero, la lingua del colonizzatore, entrata nell’immaginario collettivo che è nel suo essere esclusivo di fatto una sopraffazione culturale. Il pathos di Menegoni, che agisce il testo su un tappeto sonoro di effetti noising, non basta però ad avvicinare lo spettatore medio, che si allontana in quanto complice della decadenza, nella sua sordità bovina (alcuni spettatori infatti abbandonano la sala durante dello spettacolo).

Un’atmosfera da fin de siècle permea l’estetica di ANAGOOR, come se fosse avvenuto un cataclisma e se ne stessero contando i danni per poi ricostruire. Attraverso procedimenti alchemici si lasciano indizi allo spettatore che arriva alla bellezza solo se riesce a scorgerla; la predisposizione accorta dello spazio scenico, invito a un rituale che sia occasione di meditazione ed espiazione, avviene attraverso la selezione degli oggetti che si rivelano artefatti di umile grazia. Abolita ogni influenza dell’industria, del consumo, dell’automatismo del prodotto, restano le proprie mani, adatte a intrecciare cesti di dimensioni disparate e a raccogliere il miele, come nelle azioni sceniche alle quali si assiste, segnali di un’umanità ancora presente, di un rapporto con la materia prima che consista in una delicatezza protettiva che preservi dal Golgota di quest’epoca post-storica la poiesis dell’ultimo uomo nella città di Anagoor immaginata da Dino Buzzati, assente dalla mappa per non essere raggiunta dai principi, dotata di mura altissime dalla quale si scorge soltanto il fumo proveniente da qualcosa che brucia, ancora.

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Autore

Redazione

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