Devir, Il ciclo

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In occasione del Film Festival Turco, tenutosi presso il Cinema Barberini dal 26 al 29 settembre, è stato proiettato Devir, il ciclo, docudrama del regista e romanziere turco Derviş Zaim, vincitore nel 2013 del Grand Jury Prize all’İstanbul Film Festival: viaggio tra dicotomie irrisolte di modernità e tradizione, capitalismo ed ecologia, che sfuggono dalle pagine dei libri di storia e sociologia per approdare sul grande schermo.

Devir, Il ciclo, di Derviş Zaim/ Turchia 2013, 75′

Sceneggiatura: Derviş Zaim

Montaggio: Aylin Zoi Tinel

 Distribuzione: M3

Produttore: Derviş Zaim

E’ autunno, la comunità di Hasanpaşa si prepara a celebrare l’annuale grande festa culminante nella gara dei pastori: ogni gregge del villaggio scenderà giù di corsa da una collina, guidato dal suo pastore e le pecore, tinte di rosso cremisi con la polvere estratta dalle rocce locali, si getteranno in un piccolo stagno per attraversarlo. Vince il pastore più bravo, quello le cui pecore mostrano più fiducia, frutto di una sinergia costruita tra le praterie, ora bruciate dal sole, ora seppellite dalla neve.

Takzam è un uomo anziano, depositario di una tradizione antichissima di cui nessuno conosce il significato. Il suo volto è coriaceo e impenetrabile come la roccia. Nella vittoria della gara risiede il segreto di tutta la sua vita. E’ l’ottavo anno che Takzam vince, ma è stanco, e teme che la tradizione più significativa della comunità possa venir seppellita con le sue ossa, come lui seppellisce quelle delle sue pecore dopo averle mangiate: «Affinché l’animale possa rinascere intero». E’ una questione di rispetto, è un atto d’amore, se mancano delle ossa sostituitele con dei pezzi di legno, spiega ai due nipoti. Loro ascoltano senza capire, bruciati dentro dall’invidia e uno dei due, Ali, decide di partire per Istanbul, emblema della città avanzata e cosmopolita. Derviş Zaim ci mostra una città diversa da quella costruita nelle cartoline; la città è un complesso ed efficiente macchinario grigio in cui il pastore di campagna trova posto in un piccolo mattatoio, ma l’antico mestiere è completamente spogliato di senso e dignità, preso nell’ingranaggio inorganico dell’industria. Gli animali sono numeri e mucchi di pelle lungo il muro, si respira paura, la paga è misera.

Ali torna sul finire dell’estate al suo paese natale, rifiutato dalla città, ha con sé un sacchetto di colorante artificiale, comprato sotto richiesta del vecchio pastore: le rocce rosse sono sparite a causa della vicina società di marmi. Senza convinzione il giovane si prepara alla nuova gara, con un gregge non più suo, mentre trova lavoro come autista personale dell’ingegnere che dirige la cava. In un giorno pieno di neve accompagna lo straniero in un bosco: un cervo appare, quasi come in sogno; l’ingegnere spara e l’animale cade lento nella neve. L’ingegnere taglia compiaciuto le sue corna maestose e tornato alla cava le appende ad un palo. Ali, turbato dal gesto, torna a casa e in uno stato di profonda commozione costruisce delle corna di legno.

Derviş Zaim costruisce il suo film sull’intreccio formalmente delicato di tre piani: uno genuinamente documentaristico, uno onirico e uno prettamente finzionale. Durante tutta la prima metà del film si è immersi in una realtà totalmente altra, basata su rituali grotteschi e privi di significato: ci si trova a ridere, involontariamente, di questi pastori isolati e immersi in un mondo ancora misteriosamente ritualizzato. Ma a poco a poco lo sguardo è internamente mutato dalla rivelazione di come un conflitto drammatico nell’età della globalizzazione, quello fra tradizione e modernità, possa avere effetti devastanti a livello esistenziale di chi l’efficiente capitalismo lo vede per la prima volta e, forse, non ne ha poi così tanto bisogno. Tra sogno e due livelli di realtà – o di finzione? – il conflitto è silenziosamente riportato alle sue origini tragiche: a quel rapporto tra natura e uomo, interrotto dal processo di civilizzazione con la nascita stessa della città, di cui non possiamo immaginare una modalità di pacificazione senza arrischiare un’avventura, anche solo immaginata, in una terra lontana e sconosciuta. Dopo i titoli di coda, il regista dichiara che quanto abbiamo visto è tutta finzione, ma quando la finzione è più reale della realtà, resta di fatto la trasformazione di chi ha guardato ed è ora costretto a guardare chiedendosi se, in fondo, la finzione più finta non sia proprio questa vuota civiltà in cui e di cui ci pasciamo.

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Autore

Giulia Belloni

« Art et politique tiennent l'un à l'autre comme formes de dissensus, opérations de reconfiguration de l'éxperience commune du sensible» Jacques Rancière, Le spectatuer émancipé (2008).

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