Berlinale 68 | Isle of Dogs, di Wes Anderson

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È il 2037, siamo in Giappone. Il sindaco di Megasaki decide di combattere la crescita incontrollata dei cani esiliandoli tutti. I quadrupedi finiscono quindi in quarantena sull’isola dei rifiuti. Il pretesto per questa deportazione è la salute pubblica. La popolazione canina della città è infettata dall’influenza canina, che può essere trasmessa agli esseri umani. È qui che Chief, Rex, Boss, Duke e King incontrano il giovane Atari che, incurante del pericolo, è partito alla ricerca del suo cane Spots in uno scenario devastato dove la discarica di un futuro distopico diventa ancora più immagine chiave dell’immaginario contemporaneo.
È un gruppo di cani decisamente malridotti e per niente carini quello di Isle of Dogs. Forse proprio per questo, in linea con tutta la poetica e il cinema di Wes Anderson, sono commoventi.

Dopo Moonrise Kingdom e The Grand Budapest Hotel, Anderson torna sul tema della rivolta ma guardandolo ancor più da vicino. Isle of Dogs, film di apertura alla Berlinale 2018, è probabilmente il più cupo nella filmografia del regista.
Attraverso un’improbabile storia di lealtà e di amicizia, Anderson usa il miglior amico dell’uomo per raccontare le vite ai margini e i destini disperati delle vittime di un tiranno. Il giovane Atari sembra un piccolo samurai per come, incurante delle conseguenze, si lancia in una missione impossibile.
Questa disperazione di fondo, che permea i toni apparentemente leggeri del suo cinema, è ancora più leggibile se ci soffermiamo sulla forma scelta. Tutt’altro che esigenza di controllo totale sull’inquadratura, diventa allora centrale l’utilizzo dell’animazione in stop motion. È la violenza a governare realmente l’isola discarica e l’accanimento delle immagini sui corpi dei cani che si azzuffano e si attaccano in una feroce lotta per la sopravvivenza.
Quando Anderson filma le rovine dell’isola discarica o i raduni pubblici del sindaco li stilizza senza abbellirli. Il Giappone di Isle of Dogs è come Zubrowka in “The Grand Budapest Hotel”: una creazione, uno specchietto per raccontare altro, il contrasto irrisolto tra mero ordine e bellezza.

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